Acqua minerale: lasciarla al sole è pericoloso. Non solo per chi la beve.
“L’acqua è un prodotto alimentare vivo e come tale è soggetta a subire modificazioni allorché è isolata dal suo ambiente naturale e forzata all’interno di contenitori stagni che impediscono i normali interscambi che avvengono fra l’acqua, l’aria, la luce e le altre forme di energia…”
Sulla base di questo “vitale” principio, la Corte di Cassazione, poche settimane fa, ha emesso una interessante sentenza in materia reati contro la salute per mezzo di sostanze alimentari (sentenza 39037/18, pubblicata il 28 agosto).
Più precisamente, l’oggetto del processo penale definito con il provvedimento in questione era l’acqua minerale.
Un commerciante era stato condannato dal Tribunale di Messina per il reato di cui all’art. 5 della L. n. 283 del 1982, per avere detenuto per la vendita, in cattivo stato di conservazione, più confezioni di acqua collocandole nel piazzale antistante l’immobile, esponendole alla luce del sole.
Ha, quindi, fatto ricorso per cassazione sostanzialmente sulla base di un motivo: secondo la difesa dell’imputato la locuzione “cattivo stato di conservazione” farebbe ritenere che la merce debba subire un deterioramento dovuto alla durata della cattiva conservazione; altrimenti, qualunque esposizione al sole sarebbe ritenuta nociva. In pratica, secondo la difesa, la norma, se non interpretata come essa sostiene, sarebbe generica, punendo anche una esposizione pure breve al sole.
La Cassazione ha rispedito al mittente queste argomentazioni, ribadendo anzitutto che questo è un reato cosiddetto “di pericolo presunto”, il che comporta che si realizza con “largo anticipo” data l’estrema rilevanza del bene protetto: la salute.
In pratica, il reato si concretizza anche senza l’effettivo accertamento del danno alla salute.
Per la fattispecie di detenzione per la vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione è sufficiente che si accerti che le concrete modalità della condotta (in questo caso del commerciante, ndr) siano idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento dell’alimento, senza che sia necessaria a tal fine la produzione di un danno alla salute.
Questo questo reato “è posto a tutela del c.d. ordine alimentare, volto quindi ad assicurare che il prodotto giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura”; principio che è del tutto consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte.
Sono tutti caratteri assai interessanti della figura di reato in questione, specie se si confronti quest’ultima con un altro illecito di cui ci si è già occupati in questo blog (https://cibodiritto.com/commercio-di-sostanze-alimentari-nocive-non-basta-che-lalimento-sia-scaduto/): quella di commercio di sostanze alimentari nocive, con particolare riferimento a un’ipotesi di vendita di alimento scaduto.
Nel caso di quest’ultimo illecito, infatti, non è sufficiente il mero dato della scadenza, ma occorre la prova della concreta pericolosità dell’alimento.
Reati diversi, ma accomunati dall’essere finalizzati a tutelare la salute da una delle sue principali fonti di rischio: l’alimentazione.
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