Acque, pesticidi, valori limite – Qualche osservazione sui dati dell’Annuario Ispra
Impedire il deterioramento dello stato dei corpi idrici dell’Unione europea (UE) e conseguire un «buono stato» dei fiumi, dei laghi e delle acque sotterranee in Europa entro il 2015.
A tal fine, proteggere tutte le forme di acqua (di superficie, sotterranee, interne e di transizione); ripristinare gli ecosistemi in e intorno a questi corpi d’acqua; ridurre l’inquinamento nei corpi idrici; garantire un uso sostenibile delle acque da parte di individui e imprese.
Sono gli scopi della Direttiva quadro per l’azione comunitaria in materia di acque (23 ottobre 2000, n. 60).
D’altro canto, un’altra direttiva (la n. 128\2009) sancisce la finalità dell’ “uso sostenibile dei pesticidi riducendone i rischi e gli impatti sulla salute umana e sull’ambiente e promuovendo l’uso della difesa integrata e di approcci o tecniche alternativi, quali le alternative non chimiche ai pesticidi”.
In Italia, queste due normative non sono proprio diritto vivente, per così dire.
Nel 2018, infatti, sono stati trovati residui di pesticidi nel 77% dei punti di campionamento delle acque superficiali e nel 36% di quelle sotterranee; più precisamente, nelle acque superficiali il 24,4% dei punti monitorati presenta concentrazioni superiori ai limiti di qualità ambientale; il 6% nelle acque sotterranee.
La fonte principale della contaminazione è l’agricoltura.
È quanto emerge dall’ultimo Annuario dell’Ispra, presentato poche settimane fa.
Orbene, quando c’è una norma di tutela dell’ambiente e della salute pubblica che pone determinati valori – limite (indipendentemente dalla loro reale efficacia protettiva) e una platea di destinatari che ha qualche problema a rispettarli, per dirla in maniera delicata, di solito la reazione è quella di cercare i modi più efficaci per indurre quei destinatari a rispettare quelle norme.
Almeno questo è quello che dovrebbe accadere nei paesi civili.
E questo è quello che non accade in questo paese.
Per esempio, nel 1985 viene emanato un provvedimento legislativo che, recependo un’indicazione comunitaria, fissa dei limiti rigorosi per la presenza di atrazina (un erbicida “sospettato” di esser cancerogeno e mutageno) nell’acqua.
Ben presto però, alle prime analisi delle acque seguite all’emissione del decreto, ci si rende conto che, a prenderli sul serio, quei limiti rischiano di fare molti danni.
Alla “economia nazionale”, ovviamente, non certo all’ambiente e alla salute delle persone.
Pertanto, secondo una virtuosa usanza invalsa nelle stanze dove si prendono le decisioni politiche in queste materie quando si deve scegliere tra la tutela dell’economia nazionale (che poi, tradotto, significherebbe, grosso modo, del profitto di qualche azienda) e quella dell’ambiente e della salute pubblica, non ci sono dubbi: si opta, senza frapporre indugio, per la prima.
In modo conforme alla nota la creatività italica, naturalmente: se l’acqua non rispetta i limiti di legge, non si bonifica l’acqua, si alzano i limiti di legge.
Il ministro sotto la cui oculata regia si realizza questo paradigma di legalità nazionale è il celeberrimo Donat Cattin.
L’atrazina fu poi vietata qualche anno dopo; ciononostante, a trent’anni di distanza, essa impreziosisce ancor oggi le acque di larghi tratti del territorio nazionale: dalla Pianura Padana alla Puglia (l’ultima rilevazione, in tal senso, è di soli due anni fa).
Il “modello atrazina” resta evidentemente un prodotto tipico nazionale.
Per tornare alla questione acque – pesticidi, infatti, se tanti corpi idrici del belpaese risultano additivate di glifosato, neonicotinoidi e altre simili salubrità, oggi ci sono autorevoli studi che forniscono preziosi consigli su come risolvere il problema: adottare “nuovi indicatori di qualità per gli agrofarmaci” (mai farsi sfuggire la parola “pesticidi” in certi contesti!).
In pratica, alzare i limiti di legge.
Ciò soprattutto per scongiurare il più grave rischio che deriva dai superamenti di quelli oggi in vigore: il fatto che quei superamenti “spesso causano allarmi a livello di media e Autorità locali”.
Il tutto in una pubblicazione patrocinata da una delle più importanti associazioni di categoria del mondo agricolo, e da un’associazione che si occupa di “scienza e tecnologie per l’agricoltura.”
A questo punto, solo qualche domanda finale: che idea hanno di sostenibilità, precisamente, gli autori e gli sponsors di questo studio?
Quanto è ampio il perimetro delle interpretazioni di questo principio?
Ma, soprattutto, quanto possiamo ancora prenderlo sul serio, noi cittadini e consumatori, il concetto di sostenibilità?
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