Alimento nocivo servito alla mensa scolastica: chi ne risponde?
In un’azienda che produce e distribusce prodotti alimentari e avente una organizzazione complessa chi è penalmente responsabile della sicurezza di ciò che è fornito al cosumatore?
Chi materialmente prepara il prodotto alimentare o anche i vertici aziendali?
In questo post vediamo di dare riposta a tali quesiti, partendo dal commento di una vicenda sottoposta di recente al vaglio della Cassazione.
INDICE
I fatti: il biscotto con la calamita nella mensa scolastica
Alimento nocivo in mensa scolastica: La difesa degli imputati
La sicurezza alimentare nelle aziende con struttura complessa
Le mansioni degli imputati nella struttura aziendale
Alimento nocivo in mensa scolastica: La decisione della Cassazione
I FATTI: IL BISCOTTO CON LA CALAMITA NELLA MENSA SCOLASTICA
Durante il servizio di mensa scolastica presso una scuola primaria era stato servito ad un malcapitato alunno un biscotto contenente una calamita, finita nell’impasto della frolla durante la sua preparazione.
A finire sotto processo per il reato di preparazione, distribuzione e somministrazione di alimenti nocivi1 erano stati due dipendenti della società che aveva in appalto il predetto servizio ed aventi, in particolare, nell’ambito dell’organigramma aziendale, le funzioni di operatore sanitario del settore alimentare e quelle di responsabile del servizio di ristorazione del centro di cottura dell’azienda.
ALIMENTO NOCIVO IN MENSA SCOLASTICA: LA DIFESA DEGLI IMPUTATI
Gli imputati erano stati condannati nei primi due gradi di giudizio e avevano, perciò, proposto ricorso in Cassazione sostenendo di non aver avuto, rispetto alle qualifiche da loro rivestite, alcun ruolo nella preparazione, distribuzione e somministrazione del cibo presso la mensa scolastica, essendo ciò compentenza soltanto dei cuochi che avevano impastato e cotto i biscotti dati ai bambini ed in uno dei quali era stato rinvenuto il corpo estraneo.
In particolare, secondo la difesa degli imputati, per la complessità e la tipologia delle mansioni affidate a questi ultimi, era impossibile che gli stessi fossero quotidianamente presenti nel centro di cottura dell’azienda per controllare personalmente la diligenza dell’operato dei cuochi, unici responsabili dell’evento, e, dunque, evitare quanto accaduto.
LA SICUREZZA ALIMENTARE NELLE AZIENDE CON STRUTTURA COMPLESSA
Nel pronunciarsi sul ricorso degli imputati, i giudici di legittimità hanno ribadito nella sentenza2 in commento alcuni principi di diritto già affermati in precedenti casi simili alla vicenda appena descritta.
Infatti, secondo l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, quando la società che si occupa della produzione e distribuzione di sostanze alimentari abbia una struttura complessa, ad esempio articolata in diverse sedi dislocate sul territorio, ciascuna delle quali con a capo un direttore, è comunque compito di questi soggetti che rivestono funzioni apicali impartire disposizioni a chi si occupa materialmente della preparazione dei prodotti affinchè sia garantita la loro qualità nonchè verificare che tali disposizioni siano correttamete seguite e attuate.
Pertanto, la mera delega delle funzioni nell’ambito dell’organigramma aziendale, anche ove essa avvenga in forma scritta, non solo non esonera i deleganti (come, ad esempio, il titolare o il legale rappresentante della società) da un obbligo di controllo ma non esclude neppure la reponsabilità penale dei vertici dell’azienda3 se il fatto “incriminato” è conseguenza diretta di una falla non occasionale, bensì strutturale, del processo produttivo dell’impresa4.
Allo stesso modo, nel caso in cui le dimensioni aziendali non siano tali da giustificare il decentramento di compiti e responsabilità, neppure una formale delega di funzioni potrebbe operare quale limite della responsabilità penale del legale rappresentante della impresa.
LE MANSIONI DEGLI IMPUTATI NELLA STRUTTURA AZIENDALE
Nel caso di specie, era stato dimostrato nel corso del processo che la società incaricata di fornire il servizio di mensa scolastica presentava un organigramma aziendale piuttosto articolato, una sorta di struttura piramidale al cui vertice vi era il primo degli imputati che rivestiva la qualifica di operatore sanitario alimentare5, da cui dipendevano i responsabili dei singoli servizi di ristorazione, tra cui la seconda imputata.
Al primo spettava la gestione del ciclo produttivo fornendo diposizioni organizzative e tecniche ai propri collaboratori e assicurandosi che esse venissero attuate correttamente.
La seconda imputata, invece, si occupava di verificare la salubrità dei prodotti alimentari sotto il profilo igienico sanitario, fornendo tutte le necessarie istruzioni operative al personale per mantenere un comportamento igienico risettoso delle vigenti disposizioni di legge nonchè eseguendo la necessaria attività di controllo.
In tal senso, l’imputata aveva dato prova di aver fornito ai cuochi che si occupavano della preparazione dei biscotti un idoneo protocollo HACCP6 che espressamente vietava loro l’utilizzo nei locali di cottura di oggetti metallici, tra cui anche la calamita che bloccava il foglio su cui era scritta la ricetta e che si era accidentalmente staccata dall’impastatrice presente in cucina.
ALIMENTO NOCIVO IN MENSA SCOLASTICA: LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE
Ebbene, gli “ermellini” hanno ritenuto non corretta la decisione di condannare gli imputati e hanno, dunque, accolto il loro ricorso ritenendo che, in base alle risultanze processuali, non sia emerso in maniera chiara quale sarebbe stata la negligente condotta di controllo che era esigibile dagli imputati e dagli stessi nella specie omessa, tale da essere causalmente collegabile all’incidente accaduto.
Essi, infatti, avevano provveduto a fornire ai dipendenti precise disposizioni che vietavano l’utilizzo delle calamite nelle sale di cottura del cibo, dando prova di aver assolto ai propri doveri direttivi con il manuale Haccp adottato dall’azienda
Pertanto, secondo la Cassazione, in caso di alimento nocivo servito in mensa scolastica, per affermare la penale responsabilità degli imputati per i reati loro contestati occorreva verificare in sede processuale se i dipendenti fossero stati adeguatamente informati di tale divieto, se si trattasse di disposizione rispettata o violata e se fossero previsti, e di fatto attuati, controlli per verificarne il rispetto.
Tutto ciò non era stato appurato dal primo giudice e, dunque, non vi era stata adeguata prova di quale fosse la concreta condotta omissiva degli imputati da cui far discendere la loro responsabilità penale che, evidentemente, non può derivare automaticamente dal solo fatto di dirigere la società e dalla posizione di garanzia che ne deriva.
E ciò anche quando il bene che si intende tutelare è quello della genuinità e della sicurezza di ciò che arriva sulle nostre tavole.
25\6\2022
Avv. Anna Ancona
Per consulenze e assistenza legale in materia di sicurezza alimentare, contattaci: info@cibodiritto.com
ARTT. 5, lettera d), e 6, LEGGE 30 APRILE 1962, N. 283.
In particolare, l’art. 5 prevede che “È vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari:
a) private anche in parte dei propri elementi nutritivi o mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne la composizione naturale, salvo quanto disposto da leggi e regolamenti speciali;
b) in cattivo stato di conservazione;
c) con cariche microbiche superiori ai limiti che saranno stabiliti dal regolamento di esecuzione o da ordinanze ministeriali;
d) insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione;
e) [abrogata]
f) [abrogata]
g) con aggiunta di additivi chimici di qualsiasi natura non autorizzati con decreto del Ministro per la sanità o, nel caso che siano stati autorizzati, senza l’osservanza delle norme prescritte per il loro impiego. I decreti di autorizzazione sono soggetti a revisioni annuali;
h) che contengano residui di prodotti, usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l’uomo. Il Ministro per la sanità, con propria ordinanza, stabilisce per ciascun prodotto, autorizzato all’impiego per tali scopi, i limiti di tolleranza e l’intervallo per tali scopi, i limiti di tolleranza e l’intervallo minimo che deve intercorrere tra l’ultimo trattamento e la raccolta e, per le sostanze alimentari immagazzinate tra l’ultimo trattamento e l’immissione al consumo”.
Si tratta di un reato contravvenzionale la cui pena è stabilita dal successivo art. 6 che, infatti, stabilisce che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, i contravventori alle disposizioni del presente articolo e dell’articolo 5 sono puniti con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da € 309 a € 30.987. Per la violazione delle disposizioni di cui alle lettere d) e h) dell’articolo 5 si applica la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno o dell’ammenda da € 2.582 a € 46.481”.
Per un approfondimento circa la la legge del 30 aprile 1962, n. 283 e le recenti evoluzioni legislative in materia di sicurezza alimentare, si veda un altro contributo presente su questo blog: https://cibodiritto.com/abrogata-la-l-2831962-sulla-sicurezza-alimentare-in-morte-e-resurrezione-di-una-legge-utile/
Sul punto si veda un approfondimento del Procuratore della Repubblica, Dott. Raffaele Gauriniello, estratto dal suo volume “Codice della sicurezza degli alimenti”: https://www.teknoring.com/news/agricoltura-e-agroalimentare/reati-alimentari-quali-sono-i-soggetti-penalmente-responsabili-in-azienda/
Si veda, ad esempio, quanto stabilito dalla sentenza della Cassazione penale, n. 27587/2020, relativa ad una fattispecie in cui erano state accertate carenze strutturali della società oprante nel settore alimentare, quali la mancanza di un preciso organigramma aziendale e di resoconti periodici al delegante sulle attività di controllo di igiene degli alimenti da parte dei delegati
Nella sentenza in commento viene anche richiamata la normativa europea ed, in particolare, l’art. 3, comma 1, n. 3 Reg. (CE) n. 178/2002 del 28 gennaio 2022, adottato dal Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare; in tale articolo l’operatore sanitario alimentare viene definito come la “persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni della legislazione alimentare nell’impresa alimentare posta sotto il suo controllo“. Nel testo della sentenza si fa anche riferimento al successivo art. 17, comma 1, che, tra l’altro, prevede che “spetta agli operatori del settore alimentare e dei mangimi garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti o i mangimi soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione edella distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte”.
L’acronimo HACCP deriva dall’inglese “Hazard Analysis and Critical Control Points” che in italiano si traduce con “analisi dei rischi e punti critici di controllo”. Si tratta di un insieme di procedure volte a tutelare il consumatore garantendo la salubrità degli alimenti, prevendo rischi e valutando i punti critici di controllo.
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