Cibo, ambiente, sicurezza alimentare – Lezioni brevi dalla pandemia
“L’universo si sta dilatando.
L’universo si sta dilatando?
Be’, l’universo è tutto e si sta dilatando: questo significa che un bel giorno
scoppierà e allora quel giorno sarà la fine di tutto.
Ma sono affari tuoi, questi?” (W. ALLEN)
Avvertenze:
1) Le lezioni di cui si parla in questo post sono solo quelle che chi scrive ha appreso, in via strettamente personale, in questo mese e rotti di quarantena. Senza alcuna velleità dello stesso scrivente di impartirne a sua volta a nessuno, stante la sua assoluta mancanza di titoli in tal senso. Anche quando dal testo qualcuno dovesse ricavare la sensazione opposta.
2) Chi scrive, purtroppo per lui, non appartiene alla Beata Congregazione “La crisi è un’opportunità”. La crisi resta, prima di tutto, un’enorme fregatura, almeno per i più; tra i quali vi è il sottoscritto. E così, tendenzialmente, la vivono – e quindi se la sarebbero volentieri risparmiata – tutti quelli di medio buonsenso. E, forse, anche qualche ottimista appena curabile. Pertanto, le riflessioni e le indicazioni contenute in questo pezzo hanno l’unico obiettivo di provare a limitare un po’ i danni di quella crisi, a livello almeno individuale, prima, molto prima, che collettivo; oltre che impiegare un po’ del tanto tempo vuoto a disposizione in questo periodo.
Di tutte le lezioni non richieste, e neanche particolarmente gradite, che questo curioso periodo ci sta regalando a caro prezzo, quella che mi pare vada presa maggiormente sul serio è la necessità, sempre più pressante, di unire sforzi di analisi teorica “della fase” a capacità manuali e pratiche per sopravvivere, più o meno serenamente, alla stessa.
Specie in ambito di cibo e sicurezza alimentare.
Da quando siamo entrati in questa nostra lunga parentesi di ordinaria distopia, dei tanti timori, se non proprio terrori, che ci hanno – chi più, chi meno – azzannato alla giugulare, tra le prime a presentarsi sono state varie forme di orrore del vuoto: da quello che ci siamo trovati ad osservare, in pochi giorni, nelle strade cittadine a quello che siamo stati costretti a registrare nelle nostre vite di relazione; almeno se per relazione si intende qualcosa in più di una chat o di una videochiamata. Per non attingere il capitolo delle prospettive, dove il vuoto, per certi versi, costituisce una sorta di male minore.
Qui, però, si vuole dedicare, in particolare, qualche riflessione a una categoria di vuoto assai concreta: quella che abbiamo temuto di dover constatare anche negli scaffali di iper, super e minimarket.
A ogni annuncio di nuovi decreti di chiusura, provvedimenti più restrittivi, inasprimenti di quarantene e isolamenti vari, il pensiero di tanti correva, immediato e creativo, lì: a scansie vacanti, a negozi serrati, a code per il companatico, se non direttamente per il pane.
E, in non pochi casi, oltre al pensiero, a quegli annunci correvano immancabilmente anche i corpi: a mettersi in coda – non necessariamente a distanza di sicurezza – davanti ai supermercati, per l’appunto. Quando non a mimare abbozzi di assalti al forno delle grucce durante la peste del terzo millennio; con l’ovvia conseguenza di spianare ulteriori praterie al virus.
Orbene, al netto degli attacchi di panico, delle isterie e delle note di colore di varia natura, si va facendo strada, da più parti, l’idea che, forse, quei timori non appartengono per forza al mondo orrorifico della distopia.
Forse, l’ipotesi che i nostri approvvigionamenti di beni primari possano andare incontro a momenti difficili, e noi con loro, non costituisce solo uno scenario ballardiano.
Ci sono economisti autorevoli, nazionali e internazionali, che parlano apertamente di possibilità di “disorganizzazione dei mercati” che potrebbero non riguardare solo il mercato finanziario, ma anche quello delle merci; con conseguenti “strozzature nella catena di produzione”: che è un’elegante formulazione per dire che ci sarebbero rischi proprio nelle forniture di merci, per l’appunto.
Ci sono i vertici di FAO, OMS E WTO che qualche giorno fa hanno emanato una dichiarazione congiunta nella quale affermano che “c’è il rischio di una crisi alimentare globale a causa dell’epidemia di coronavirus e delle conseguenza che ha sulle catene di approvvigionamento e sul commercio internazionale.”
Ci sono alcune tra le associazioni di categoria più rappresentative del mondo dell’agroalimentare italiano che lanciano, giusto questi giorni, l’allarme che, a breve, “manchino prodotti alimentari in negozi e supermercati”.
Ma soprattutto c’è una situazione che questo paese, il mondo, ognuno di noi sta vivendo che, fino a poco più di un mese fa, sarebbe stata immaginabile solo da una mente sanamente distopica, per l’appunto.
In questa situazione che ci è toccata in sorte nell’anno di grazia 2020, non c’è alcuna seria ragione per escludere la possibilità di scenari di carenza, più o meno temporanea, di generi alimentari nella nostra società.
E’ una possibilità della quale va preso atto senza alcun cedimento al panico, senza alcuna isteria, né individuale né, men che meno, collettiva. Ma ne va preso atto.
Perché, se è vero, come dice una grande scrittrice, che “solo quando la nozione di una cosa si spande lentamente in tutto il corpo, si sa veramente”, è altrettanto indubitabile che anche solo “sapere” con la testa che può verificarsi “una cosa” come quella di cui si sta parlando in questo articolo (la carenza di generi alimentari) potrebbe – o meglio dovrebbe – servire a ridurre l’impatto di quella stessa “cosa”, nella sciagurata ipotesi in cui dovesse verificarsi sul serio.
A condizione che si faccia leva sulla razionale consapevolezza che è necessario attrezzarsi: come si accennava all’inizio, sia sotto il profilo delle capacità di diagnosi che di tentativi, pur del tutto parziali, di terapia, per rimanere a un lessico egemone in questa fase.
Sotto il primo aspetto, è evidente che occorre ancor più studiare, in-formarsi, conoscere, per provare a capire – in maniera quanto meno superficiale e quanto meno tardiva possibile – questo incredibile momento che ci è piombato addosso.
Con una particolare attenzione alle fonti di in-formazione, ovviamente.
In tal modo, si potrà cogliere, per esempio, che, per la prima volta da quando è stata codificata la categoria di sicurezza alimentare, oggi, anche in questa parte del mondo che definiamo “Occidente”, essa deve iniziare a essere interpretata in modo da ricomprendervi seriamente anche il concetto di “food security”, cioè di sicurezza negli approvvigionamenti (“sicurezza di accedere a cibo sufficiente per una vita sana e attiva”); non solo quello di “food safety”, ossia garanzia di sanità e salubrità del cibo che mangiamo.
E poi c’è l’altra parte della lezione della pandemia: quella relativa alla necessità di un approccio personale manuale.
Se l’analisi che precede è anche solo in parte fondata, la prima conseguenza pratica che ne discende non può che essere una: ognuno deve entrare in un ordine di idee di aumento di resilienza individuale, ossia di contribuzione al soddisfacimento del proprio fabbisogno alimentare. Insomma, di autoproduzione di cibo.
Non si sta parlando dell’applicazione di teorie, un po’ visionarie e ancor più naif, di “autosufficienza” alimentare; quella sarebbe, comunque, un po’ arduo da raggiungere, per dirla con una litote.
Si sta solo provando a sostenere che, nella fase storica che si è aperta qualche settimana fa, coltivare la capacità di riuscire a ricavare personalmente cibo dalla terra potrebbe risultare anzitutto un buon affare. Il che vuol dire, in sostanza, iniziare a coltivare materialmente un po’ di terra, in campagna come in città (anche se, in quest’ultimo caso, l’obiettivo può risultare decisamente più complicato).
E poi potrebbe essere un modo serio in cui iniziare a dare un po’ di concretezza ai millanta impegni solenni, proferiti dai pulpiti più variegati, per cui “si apre un’altra era per tutti”, “niente sarà più come prima”, “dobbiamo imparare a cambiare e adattare il nostro stile di vita”… e via seguitando.
Infine, per ultimo ma non certo ultimo per importanza, prendere una zappa in mano e iniziare a usarla potrebbe simboleggiare il principale “nuovo inizio” che secondo la totalità degli opinionisti più illuminati deve segnare l’agognatissima uscita dal tunnel della pandemia: quello per cui dovrà esserci una radicale riforma del nostro rapporto con l’ambiente, con gli ecosistemi e con la biodiversità.
Più precisamente, del rapporto tra le nostre esigenze e le nostre dinamiche di produzione e di progresso, come specie umana, e la necessità di ridurre al minimo l’impatto concreto di quelle stesse dinamiche sul pianeta che ci ospita.
Necessità tanto più stringente quanto più si va ormai consolidando nel mondo scientifico l’ipotesi per cui la penetrazione di quel microrganismo che ha stravolto le nostre esistenze in una manciata di giorni sia stata significativamente agevolata anche dagli stravolgimenti che gli esseri umani hanno inferto al clima, alle matrici ambientali, ai cicli naturali e agli equilibri degli ecosistemi di questo pianeta.
Un nuovo rapporto con l’ambiente, dunque; o, come dice qualcuno che scrive molto meglio dell’autore di questo articolo, “un nuovo patto di alleanza tra specie umana e ambiente”.
E quale ambito migliore della produzione del cibo per suggellare quel patto?
Un cibo per creare il quale non si entri nell’ingranaggio di un sistema di produzione che è, anzitutto, sistema di predazione: dei territori, delle loro risorse ambientali, delle persone che ci vivono e lavorano; per estrarre da ogni dove il massimo profitto. A ogni costo: ambientale e umano.
Di più, un cibo che diventi mezzo di conoscenza dei tempi e dei cicli naturali, strumento di riconciliazione con la terra, terreno di ricomposizione di conoscenza scientifica e conoscenza umanistica, pratica di armonizzazione di sapere e saper fare, emblema di resilienza.
Gaber cantava: “se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione”.
Un orto è un’idea che si mangia.
In quanto tale, è rivoluzionario.
“Mi interessa molto il futuro: è lì che passerò il resto della vita.” (attribuita a G. Marx)
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