Commercio di specie esotiche: reati allarmanti, pene poco rassicuranti


Ieri ci siamo occupati del cosiddetto “furto venatorio”, ossia la cattura senza autorizzazione di esemplari di fauna selvatica che, in quanto tale, costituisce reato di furto aggravato ai danni dello Stato.

Oggi, sulla falsariga di quel post, è il caso di dare una veloce occhiata a un altro tipo di reati – che presenta, peraltro, non pochi punti di contatto con il primo; si pensi al tristo fenomeno del bracconaggio – contro gli animali selvatici: il commercio internazionale di specie esotiche.

Materia, tra l’altro, di una certa attualità, data l’ormai più che probabile rilevanza, per esempio, che questo fenomeno – o altri assai affini, come i mercati di animali selvatici, in generale – ha dispiegato sulla genesi della pandemia da Coronavirus che ha sconvolto una grande parte di pianeta.

A ottobre scorso, una review pubblicata su Science aveva mostrato, analizzando i dati di oltre 30.000 specie di animali, che quasi un vertebrato terrestre su cinque è interessato dal commercio. A confermare che il commercio rappresenta anche un notevole contributo dell’estinzione, gli autori dello studio hanno evidenziato che le specie più a rischio sono anche quelle più commercializzate.

Nell’analisi pubblicata su Science rientrano animali venduti per le più svariate ragioni: finiscono a fare da oggetti d’arredamento, in cucina o nella medicina tradizionale, non solo come pet.

La storia di alcune specie è emblematica di quanto una moda passeggera – che si diffonde tra quella che, in non pochi casi, costituisce la specie animale più idiota e viziosa – di un esotico ospite del proprio appartamento possa comprometterne pesantemente la popolazione in natura; per esempio, quella del pappagallo cenerino.

Tuttavia, a fronte di un mercato internazionale nel quale all’incirca la metà di questi sventurati esseri viventi è commerciata illegalmente, la normativa di tutela, su scala internazionale, unionale e nazionale, non risulta proprio ferrea.

La legislazione che regola il commercio degli animali selvatici è fondata sulla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES, acronimo di Convention on International Trade of Endengered Species), firmata a Washington nel 1973 ed entrata in vigore due anni dopo. Lo scopo della convenzione, che attualmente conta 183 Paesi firmatari, è tutelare non solo la fauna, ma anche la flora, dal sovrasfruttamento. Le specie animali elencate dalla CITES sono circa 5.800 (la lista viene aggiornata regolarmente), suddivise in tre diverse appendici a seconda del grado di minaccia. Nell’Unione Europea, la CITES è stata recepita con i regolamenti CE 338/97 e 865/2006, nei quali le specie selvatiche elencate dalla Convenzione, con l’aggiunta di alcune altre, sono state suddivise in quattro allegati (A, B,C e D, quest’ultimo noto anche come “lista di monitoraggio”, perché comprende specie per le quali i livelli d’importazione in UE non sono regolamentati ma semplicemente monitorati).

In Italia, il testo normativo di riferimento è la legge 150/92, in particolare in ambito penale; cui si aggiungono due decreti del Ministero dell’Ambiente che elencano le specie la cui introduzione è vietata nel Paese perché considerate pericolose per l’incolumità e la salute pubbliche e per i quali è vietata la detenzione (permessa solo a strutture particolari come gli zoo e le istituzioni scientifiche di ricerca).

Per venire all’applicazione della normativa in questione, la Cassazione ha avuto modo di affermare una linea interpretativa rigorosa di questi reati, affermando che “in tema di commercio internazionale di specie animali e vegetali in via di estinzione, il reato previsto dall’art. 2, comma 1, lett. a), legge 7 febbraio 1992, n. 150, come modificato dall’art. 2, legge 22 maggio 2015, n. 68, è di pericolo presunto, essendo integrato dalla realizzazione di una delle condotte espressamente contemplate dalla norma incriminatrice (importazione, esportazione o riesportazione di esemplari appartenenti alle specie animali o vegetali elencate negli allegati B e C del Regolamento CE n. 338/97, in mancanza della documentazione prescritta dalla CITIES) senza che ad essa si accompagni necessariamente l’effettiva esposizione a pericolo del bene protetto.” (Cass. pen. Sez. III Sent., 30/01/2017, n. 46444)

Questo non toglie che, anche in questo come in troppi casi di tutela penale dell’ambiente e della biodiversità, il reato in questione sia una contravvenzione: pena dell’ammenda da euro ventimila a euro duecentomila o dell’arresto da sei mesi ad un anno.

Con la conseguenza, per citare solo la più significativa, che in cinque anni al massimo il reato si prescrive; cioè, si estingue dolcemente.

E, in questo paese, questa situazione di morte in-naturale di fattispecie e procedimenti penali per il mero decorrere del tempo non era proprio un fatto eccezionale già prima del lockdown degli uffici giudiziari per il virus.

Oggi, rischia di diventare un’epidemia.

 

 

 

 

 

+ There are no comments

Add yours