Detenzione per la vendita di salame alla salmonella: il tempo è reato
Il Tribunale di Mantova condannava un imprenditore per il reato di cui all’art. 5, comma 1, lett. d) della legge n. 283/62, in quanto deteneva, per venderlo, salame contaminato da salmonella.
L’imputato impugna la sentenza di condanna sulla base di tre motivi fondamentali.
Qui è il caso di citare solo il primo: la circostanza che il salame in questione non era ancora pronto per la vendita ma era nella fase della stagionatura, fase durante la quale la presenza della salmonella è suscettibile di remissione.
La Cassazione, in una recentissima sentenza, accoglie il ricorso dell’imputato con specifico riferimento proprio a questo motivo (Cass. pen. Sez. III, Sent. – ud. 16-09-2019 – 11-11-2019, n. 45701).
Secondo i Giudici del Palazzaccio, infatti, il salame al momento in cui è stato fatto il rilievo che ha condotto all’imputazione contestata al commerciante era ancora nella fase della stagionatura, che si sarebbe dovuta protrarre ancora per circa 45 giorni.
Il reato in questione si consuma da parte di chi “detenga per vendere sostanze alimentari invase da parassiti, in istato di alterazione o comunque nocive per la salute”.
Osserva, quindi, la Suprema Corte che “la detenzione per vendere deve intendersi ravvisabile laddove la destinazione alla vendita sia non solo già stata deliberata dall’agente (il commerciante) ma sia anche un evento temporalmente se non immediato quanto meno prossimo.”
In sostanza, nel concetto di “detenzione per la vendita”, valido ai fini di questa norma penale, gioca un ruolo fondamentale il tempo: il prodotto alimentare alterato in questione deve essere destinato alla vendita in un lasso di tempo relativamente ristretto rispetto a quando viene accertato lo stato di contaminazione.
Nel caso di specie, questo requisito mancava, perché il salame avrebbe dovuto stagionare ancora per i citati 45 giorni prima di essere messo materialmente sul mercato.
Quel margine di tempo, secondo la Corte di Cassazione, non è compatibile con il concetto di “prossimità” alla vendita.
A questo si aggiunga, inoltre, spiegano i più alti Giudici del Paese un altro elemento di grande importanza, pure contenuto nel ricorso dell’imputato: “il possibile abbattimento della carica batterica da salmonella per effetto dello stesso completamento della fase di stagionatura del prodotto alimentare e, pertanto, della sua disidratazione.”
Fenomeno di abbattimento che avrebbe potuto verificarsi usando particolari tecniche. Pertanto, il Tribunale, per condannare legittimamente avrebbe dovuto accertare che queste tecniche non erano seguite usualmente presso l’azienda dell’imputato.
Nulla, invece, il Giudice di primo grado ha rilevato sul punto.
Per tutte queste ragioni, la condanna di primo grado va annullata, anche se poi la Cassazione ha dichiarato l’intervenuta prescrizione del reato.
Quella della Suprema Corte è una sentenza che richiama i giudici di merito a particolare accuratezza e scrupolo nell’accertamento di questo tipo di fatti, contraddistinti da grande complessità tecnica.
E l’insegnamento non può che essere pienamente condiviso.
Come sempre, peraltro, quando si devono maneggiare questioni tecnicamente complesse e sui due piatti della bilancia ci sono diritti contrapposti, ma entrambi fondamentali: la sicurezza alimentare, da un lato, e la libertà e la reputazione di una persona imputata di un reato (nella specie, operatore commerciale), dall’altro.
+ There are no comments
Add yours