Diario breve di soste d’assaggio di un simpatizzante enoico inesperto – Parte II


Avevamo chiuso il diario della prima sosta d’assaggio sulle colline piacentine.

Lo riapriamo per la seconda tappa ritrovandoci sempre in ambiente collinare, ma stavolta a una latitudine più meridionale: sui rilievi teramani.

È la zona dell’unica DOCG abruzzese, quella delle Colline Teramane Montepulciano d’Abruzzo.

Qui, a quasi 300 metri di altitudine, al viaggiatore enocurioso che ha disposizione un altro ritaglio di tempo capita di fermarsi in una cantina da cui si domina un panorama di avvolgente bellezza, lungo fino all’Adriatico e affacciato su calanchi dalle pendenze notevoli.

Pendenze che, però, non impediscono che quei crinali siano ornati di vigneti rigogliosi, di piante di Montepulciano, di Trebbiano, di Pecorino che suggono i loro nutrienti da un terreno che sa di sottobosco e che sciorina, appena vi si affonda qualche centimetro di vanga, confortanti segni di vitalità sotto forma di lombrico.

Non siamo in un contesto di viticultura eroica, sancita nel cosiddetto Testo Unico della Vite e del Vino; ma non ne siamo neanche lontanissimi.

Sono terreni coltivati in biodinamico.

Il nesso causale tra il cornoletame, cuore materiale del metodo biodinamico, e lo stato di verosimile – il viaggiatore non possiede conoscenze scientifiche adeguate per accertare “a occhio” la condizione complessiva di un terreno – sanità di quel suolo “non è scontato”, per così dire; per affermarlo con certezza occorrerebbero evidenze scientifiche che ancora mancano, almeno stando alle esigue nozioni scientifiche del viaggiatore.

Ma, forse, non è la questione principale.

Forse, quello che più conta è che il vignaiolo in questione ha impostato la conduzione di quelle vigne su binari agroecologici, ossia provando a lasciare su quei terreni e, più in generale, su quegli ecosistemi un’impronta quanto meno pesante e lesiva possibile; avendo, però, come obiettivo del suo lavoro un vino che, in qualche bocca adeguatamente allenata a decifrare l’enolingua, dica qualcosa di senso compiuto del territorio e del millesimo nel quale è stato prodotto.

Come dice già molto del rapporto con il suo ambiente il nome di quella curiosa azienda vitivinicola: quello di una farfalla, che pare sia di casa da quelle parti, ma assai rara nel resto d’Italia.

Il vignaiolo prima di diventare tale faceva il farmacista, in altra landa italica, ma, a quanto pare, quel mestiere non gli portava sistematica gioia e vitalità.

Ha, quindi, deciso di riconvertirsi professionalmente, e non solo, nell’Abruzzo profondo, ai piedi del Gran Sasso.

E, poi, di riconvertire i fondi che ha acquistato: prima vigne convenzionali, poi biologiche, infine biodinamiche.

Il vignaiolo ex farmacista ha un approccio sostanzialmente laico alla vinificazione, come potresti anche non aspettarti in un contesto dell’ortodossia biodinamica: dice di sé che non è un fondamentalista dell’antienologia (nei primi anni di attività ha anche fatto ricorso all’ausilio di un enologo), né dell’antisolforosa, perché dipende dalle uve, dall’annata, dalla situazione; che a lui piace un vino sano, pulito, ma anche “corretto”.

Sì, pare davvero laico, se arriva a usare serenamente l’aggettivo che più di tutti marchia al fuoco dell’esecrato “convenzionale” il parlante di vino nell’immaginario degli enonaturalisti puri e duri.

Poi, dopo un lungo e intenso dialogo sui massimi, ma anche minimi, sistemi enoici e non solo, il vignaiolo porta il viaggiatore in cantina.

Pare nuova, trasmette una sensazione di pulizia, di efficienza, addirittura di modernità (altra categoria da maneggiare con particolare cautela in certi ambienti), si potrebbe dire approfittando dell’approccio laico del vignaiolo. Cominciano le degustazioni: due Trebbiano, un Pecorino, due Cerasuolo.

Tra questi ultimi, ve n’è uno dalla storia strana: è il 2017.

La Commissione per la Doc lo ha bocciato.

Il vignaiolo lo rivela prima dell’assaggio, ma, interrogato in tal senso, non ne dichiara i motivi: invita il viaggiatore a scoprirli da solo, al naso e in bocca.

Il viaggiatore ci prova, ma non coglie “difetti”; molto probabilmente, sarà che il viaggiatore resta comunque un simpatizzante inesperto, e i suoi strumenti gusto – olfattivi sono rudimentali assai.

O, forse, sarà altro.

Il viaggiatore, però, vuole capire: ripete la domanda al vignaiolo. Questi, allora, estrae da un cassetto un pezzo di carta e legge: “alterazioni” all’olfatto e al gusto rispetto ai caratteri propri del vino, secondo il disciplinare si presume. Questi i motivi della bocciatura. “Alterazioni”: quali? La laconica commissione sul punto, non proprio secondario, serba un impenetrabile silenzio.

Un caso classico di motivazione apparente, pensa il viaggiatore che ha qualche dimestichezza con le cose del diritto.

Il vignaiolo è ancora palesemente amareggiato dalla bocciatura: specifica subito di non avere alcuna propensione al complottismo, ma non riesce a nascondere il sospetto che un trattamento del genere difficilmente sarebbe stato riservato a un vino “non naturale”.

Il viaggiatore ha una vocazione alla fantasia complottarda ancora minore di quella del vignaiolo, ma fa fatica a sottrarsi alla tentazione di condividerne il dubbio.

Il viaggiatore lancia un’occhiata all’orologio: si era ritagliato un’ora, e anche in questo caso il ritaglio si è più che raddoppiato rispetto ai programmi.

Tocca interrompere il colloquio e gli assaggi, che si andavano rivelando uno più interessante degli altri, nonostante un invito a pranzo tutt’altro che rituale del vignaiolo.

L’impegno, anch’esso assai poco retorico, è quello di tornare, per riprendere il dialogo e il bicchiere.

Alla fine di queste due soste d’assaggio, sulla via del ritorno, le considerazioni e le sensazioni si affastellano.

Una, però, sovrasta le altre: il vino naturale si conferma domicilio eletto di biodiversità, enoica e umana, certo.

Il viaggiatore, infatti, ha assaggiato vini assai diversi tra loro: suadenti e spigolosi, seducenti e ostici, ma tutti meritevoli di attenzione e rispetto.

Come il lavoro, la passione, i principi di chi li produce.

E, nella maggior parte dei casi, alla fine, vini che hanno dato piacere.

Due soste, due produttori sono troppo pochi per trarne generalizzazioni (anche se per il viaggiatore non sono proprio le prime degustazioni di vini naturali).

Ma il pensiero corre all’acuta vulgata, che mantiene un suo seguito, per cui i vini naturali sono “quelli che puzzano”.

O a quel celeberrimo articolo pubblicato, alcuni anni fa, sulla rivista “leader in Italia nel campo della cultura del vino e dell’enogastronomia”, in cui un’enocattedratica concionava sul fatto che ogni volta che sentiva parlare di vino naturale le veniva “istintivamente da ridere”.

E anche al viaggiatore, nel suo piccolo, viene da ridere.

Non del vino naturale, però.

 

 

 

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