Emissione di fumi dalla cucina di un ristorante: per far scattare il reato, devono superare la “normale tollerabilità” – L’ultima sentenza della Corte di Cassazione


Con sentenza del 27/3/2019, la Corte di appello di Roma, tra le altre decisioni, confermava la condanna del titolare di un ristorante per il reato di “getto pericoloso di cose”, di cui all’art. 674 c.p., per “aver immesso nell’aria vapori e fumi provenienti dalla cucina in assenza di canna fumaria, causando molestie ai residenti”.

L’imputato proponeva ricorso per cassazione, per due motivi

Quello che più rileva ai fini di questo articolo è il seguente: “la Corte di merito avrebbe affermato il principio – non condivisibile – secondo il quale la mancanza di canna fumaria comporterebbe ex se l’integrazione del reato, allorquando sia comunque presente un sistema alternativo di smaltimento di fumi e vapori; per contro, la lettera della norma, ed in particolare il riferimento ai “casi non consentiti dalla legge”, imporrebbe la verifica dell’adeguatezza e della regolarità dell’impianto esistente, in uno con la specifica dimostrazione che le emissioni abbiano superato i limiti fissati dalla normativa. Sarebbe stata necessaria, in sintesi, la verifica della regolarità del sistema adottato in concreto, specie in quanto relativo ad un’attività autorizzata ed in regola.”

Per dirla in termini ancora più schematici, trattandosi di attività autorizzata, il Giudice del merito avrebbe dovuto accertare che le emissioni avessero superato i parametri fissati dalla legge.

La Corte di Cassazione dichiara il ricorso manifestamente infondato (Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 23-01-2020) 30-04-2020, n. 13324).

Con particolare riferimento al motivo di ricorso sopra riportato, la Suprema Corte parte dando atto dell’esistenza, in passato, di un contrasto giurisprudenziale all’interno della stessa Cassazione sulla specifica questione sopra riportata in estrema sintesi; e rammenta i relativi, più significativi, arresti giurisprudenziali sul punto.

La sentenza passa, quindi, a esaminare lo specifico tema delle “molestie olfattive” – alla stregua dell’orientamento cui, con evidenza, questo Collegio aderisce nella sostanza – evidenziando che “quando non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, la Corte di cassazione ha individuato il criterio della “stretta tollerabilità” quale parametro di legalità dell’emissione, attesa l’inidoneità ad approntare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana di quello della “normale tollerabilità”, previsto dall’art. 844 c.c.,

Da questo presupposto, le sentenze che adottano questa linea interpretativa fanno derivare uno degli assunti più significativi di questa pronuncia: “ciò in quanto anche un’attività produttiva di carattere industriale autorizzata può procurare molestie alle persone, per la mancata attuazione dei possibili accorgimenti tecnici e dell’osservanza del principio di precauzione che deve informare l’attività produttiva potenzialmente in grado di arrecare disturbo e molestie alla salute delle persone. […] è configurabile il reato di getto pericoloso di cose in caso di produzione di “molestie olfattive” mediante un impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in quanto non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, con conseguente individuazione, quale parametro di legalità dell’emissione, del criterio della “stretta tollerabilità”, e non invece, di quello della “normale tollerabilità” previsto dall’art. 844 c.c., attesa l’inidoneità di quest’ultimo ad assicurare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana.”

Rispetto a questo orientamento, però, questo Collegio opera una parziale correzione, motivata come di seguito.

Ritiene, tuttavia il Collegio che non si possa prescindere dal dato normativo dell’art. 674 c.p., che espressamente vieta le emissioni di gas, di vapori o di fumo atti a cagionare l’evento di molestia alle persone, “molestia” che, come affermato da una risalente ma condivisibile pronuncia, ricomprende tutte le situazioni di fastidio, disagio, disturbo e comunque di turbamento della tranquillità e della quiete che producono un impatto negativo, anche psichico, sull’esercizio delle normali attività quotidiane di lavoro e di relazione, situazioni che non comprendono il danno o anche il pericolo di danno alla salute e/o all’ambiente, casi nei quali altre sono le fattispecie incriminatrici applicabili.”

Questa sentenza, quindi, afferma l’estraneità del danno alla salute e/o all’ambiente dal perimetro dei beni giuridici tutelati da questo reato.

La conclusione dei Giudici del Palazzaccio è la seguente: “in sintesi, a parere della Corte per le attività produttive occorra distinguere l’ipotesi che siano svolte senza autorizzazione (perché non prevista o perché non richiesta o ottenuta) oppure in conformità alle previste autorizzazioni. Nella prima ipotesi, il contrasto con gli interessi protetti dalla disposizione di legge va valutato secondo criteri di “stretta tollerabilità”, mentre laddove l’attività è esercitata secondo l’autorizzazione e senza superamento dei limiti di questa, si deve fare riferimento alla “normale tollerabilità” delle persone quale si ricava dal contenuto dell’art. 844 c.c..

Di conseguenza, “qualora sia riscontrata l’autorizzazione e il rispetto dei limiti di questa, una responsabilità potrà comunque sussistere qualora l’azienda non adotti quegli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per ulteriormente abbattere l’impatto sulla realtà esterna.”

Quest’ultima situazione è proprio quella che si è verificata nella fattispecie concreta sottoposta al giudizio della Corte, laddove il ristoratore aveva effettuato “opere di sostituzione del preesistente impianto di depurazione dei fumi della cucina (filtraggio ad acqua) con un diverso sistema (a mezzo di carboni attivi)”, così adeguando gli impianti del ristorante a norma di legge, solo quando vi era “stato costretto, in esito a plurime lamentele ed a provvedimenti amministrativi”.

Il che, a contrario, deponeva inequivocabilmente nel senso che fino a quel momento il reato era stato consumato.

Nella “leggerezza” della vicenda a base, è una sentenza di grande rilievo per le questioni di diritto, enormi, che costeggia e simboleggia: dall’efficacia “scriminante” delle autorizzazioni amministrative in presenza di attività produttive inquinanti al ruolo del principio di precauzione; dal tema delle cosiddette “BAT”, le migliori tecnologie presenti sul mercato, alla differenza tra stretta tollerabilità e normale tollerabilità.

In fondo, questo rispecchia caratteristiche più ampie ed emblematiche di tutto il diritto, specie di quello penale: un fatto piccolo diventa una cartina al tornasole per cogliere principi giuridici, dibattiti culturali e dinamiche socio – politiche assai più vaste e generali.

Ed è questo uno degli elementi di maggiore fascino del diritto, e del diritto penale in particolare.

 

 

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