Ghiaccio contaminato per il pesce fresco: è reato indipendentemente dal danno al pescato


La Corte di Cassazione conferma la condanna di un commerciante confermando che quello che conta in questo campo è il cattivo stato di conservazione del prodotto

Il cattivo stato di conservazione delle sostanze alimentari di cui all’art. 5 della L. 30 aprile 1962, n. 283 riguarda quelle situazioni in cui le sostanze stesse, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza l’osservanza di quelle prescrizioni (di leggi, di regolamenti, di atti amministrativi generali) che sono dettate a garanzia della loro buona conservazione sotto il profilo igienico-sanitario e che mirano a prevenire i pericoli della loro precoce degradazione, contaminazione o alterazione.”

Lo ha affermato in una recentissima sentenza la Corte di Cassazione giudicando sul ricorso del titolare di un esercizio per la vendita al dettaglio di pesce fresco, che produceva – con apposito macchinario – ghiaccio utilizzato per la conservazione di prodotti ittici, contenente cariche microbiche superiori a quelle consentite dalla normativa di riferimento (il D.Lgs. n. 31 del 2001).

Rigettando il primo motivo di ricorso (quello relativo al cosiddetto “elemento psicologico” del reato), la Suprema Corte ha attribuito particolare valore alle affermazioni del medesimo commerciante, qualificandole “sostanzialmente confessorie”, secondo cui il fatto “era da attribuire alla scorretta operazione di pulizia delle vasche, essendo stati omessi – evidentemente dallo stesso imputato – normali accorgimenti quali lo smontaggio e la sterilizzazione del tubo e del serbatoio che porta alla macchina del ghiaccio.”

La Suprema Corte ha, poi, ribadito i principi ampiamente consolidati della sua giurisprudenza in questo ambito, per cui “ai fini della configurabilità della contravvenzione in esame, non è necessario che il cattivo stato di conservazione delle sostanze alimentari si riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle previsioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza, senza che rilevi, per la concretizzazione dell’illecito contravvenzionale, la produzione di un danno alla salute.

Ha, quindi, formulato la massima riportata in apertura e ha concluso sottolineando ancora una volta che quello in questione è un reato di “pericolo presunto”, quindi non è necessario “per la sua configurabilità un previo accertamento sulla commestibilità dell’alimento, né il verificarsi di un danno per la salute del consumatore.

Tutti principi che la Corte di legittimità ha sintetizzato, in numerose sue pronunce, nella categoria dell’ “ordine alimentare”.

Una notazione finale: la Suprema Corte, come visto, ha incentrato buona parte della sua motivazione sul concetto di “cattivo stato di conservazione” – a base del reato previsto dalla lettera c) dell’art. 5 della legge 283\1962 – anche se all’imputato era contestata, tecnicamente, una fattispecie diversa: quella di detenzione per la vendita di sostanze alimentari con cariche microbiche superiori ai limiti, prevista dalla lettera c).

In ogni caso, quello riportato sopra è oggi il “diritto vivente” in questa materia: una delle più battute dagli operatori del settore alimentare.

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