Il film è servito: breve dissertazione sul rapporto cinema-cibo (parte I)


Cibo e Cinema, è risaputo, formano un binomio ben consolidato. Nel primo spettacolo pubblico di cinematografo, organizzato dai fratelli Lumière il 28 dicembre 1895, troviamo un filmato dal titolo Repas de bébé: un bimbo che viene imboccato dai genitori durante la colazione.

Ne La febbre dell’oro di Chaplin, correva l’anno 1925, è presente la famosa scena in cui il protagonista, preso dalla fame, arriva a cucinarsi una scarpa e a mangiare i lacci a mo’ di spaghetti.

Nel cinema italiano, poi, il cibo è un elemento ricorrente, nonostante i sostanziali cambiamenti che i decenni ed il contesto storico-sociale hanno inevitabilmente comportato.

Attraverso una serie di articoli, tenteremo di mostrare il ruolo più o meno centrale che il cibo ricopre nella storia del cinema italiano, con eventuali trasferte anche nel cinema degli altri Paesi.

Durante il Ventennio, mostrare il cibo era considerato sconveniente. La censura fascista aveva eliminato numerosi elementi dallo schermo: il cibo, i sensi, il piacere, la tentazione. Scene di banchetti ed ostentazione di cibo erano rare, per non allontanare gli italiani dal rigore autarchico di quegli anni. Ne La cena delle beffe di Blasetti (1942), ad esempio, il cibo è importante per lo snodo narrativo (una vendetta da realizzarsi durante un banchetto), ma non è protagonista.

La cinematografia italiana dell’epoca, inoltre, non voleva che i personaggi (in particolare le donne) mangiassero o toccassero del cibo, visto come simbolo di piacere sensuale.

A rompere questo schema fu il film-scandalo Ossessione di Luchino Visconti, nel 1943: la pellicola si apre nella cucina di un ristorante, dove un cliente corteggia la giovane cuoca e prende il cibo dalla pentola direttamente con le mani, a simboleggiare il desiderio e l’attrazione. Dopo alcune discusse proiezioni, il film fu rapidamente tolto dalla circolazione.

Il Neorealismo del periodo bellico e del Dopoguerra evidenzia la penuria di cibo cui la popolazione era sottoposta, per il razionamento prima e per la diffusa povertà poi: in Paisà (Rossellini, 1946), il partigiano Cigolani viene sfamato da un contadino del Polesine con polenta e bisati (anguille), alimenti poveri e tipici della zona. Mercato nero e razionamento dei viveri, distribuiti solo previa esibizione della tessera annonaria, sono parte della narrazione di Roma città aperta (Rossellini 1945). La tenacia con cui si appropria della pasta, che a lei e ai suoi figli viene negata da chi fa la borsa nera, rappresenta il primo atto “politico” dell’Onorevole Angelina (Zampa, 1947). Il primo premio della lotteria di Miracolo a Milano (De Sica, 1951) è un pollo arrosto.

In Ladri di biciclette di De Sica (1948) spicca il contrasto fra il pranzo dei protagonisti e quello di altri personaggi: padre e figlio mangiano in un’osteria romana, un’occasione speciale, mangiare in un ristorante rappresenta un lusso. Il piccolo Bruno addenta con gusto una mozzarella in carrozza ed è guardato con sufficienza da un suo coetaneo di buona famiglia, il quale può permettersi un consistente e ricco pasto. Il padre, poi, dichiarerà: Per mangiare come quelli lì, bisognerebbe guadagnare un milione al mese.

Gli affamati Alberto Sordi e Lea Massari, invitati ad una cena di monarchici il giorno del referendum del ‘46, evitano discussioni inutili che potrebbero compromettere la cena in Una vita difficile (Risi, 1961). Rimasti soli dopo la comunicazione dell’esito del referendum, si domandano cosa fare: “Che facciamo, ce ne dobbiamo andare?” chiede lui. “Sì sì. Mangiamo e poi ce ne andiamo!” risponde lei.

Strutturato in capitoli, ciascuno dedicato ad un figlio della vedova lucana Rosaria Parondi, Rocco e i suoi fratelli (Visconti, 1960) narra senza filtri l’emigrazione meridionale durante i primissimi anni del cosiddetto boom economico. Il film è intriso di elementi legati alla cultura del luogo di origine: la collana di aglio appesa nella cucina di Rosaria; il pane di Matera, che la madre divide la mattina a colazione tra i figli, simbolo di un rituale che ha in sé tutto il significato della famiglia lasciata in Lucania, e del disagio di integrarsi in un Nord ostile e difficile. In una scaletta di dodici punti, compilata dal regista e conservata nel Fondo Visconti, si legge: “L’apparizione di Rosaria e dei figliuoli alla discesa del treno […] dev’essere con le grandi forme di pane assieme ai bagagli. Rosaria deve aver portato, a scopo di propiziazione, qualche segno, qualche specialità della sua terra d’origine (le ‘ricchielle’ di pasta o i taralli legati fra loro con una cordicella, o il sacchetto di lenticchie)”. Il cibo, insomma, è sinonimo di identità.

Superato il dopoguerra e migliorate le condizioni di vita, il cinema affronta l’argomento cibo, compresa la sua scarsità, in un’ottica più “leggera”: è il tempo delle grandi Commedie italiane, che alla mancanza di companatico replicano mettendo nel pane “la fantasia” (Pane, amore e fantasia, di Comencini, 1953). Questa, però, è un’altra storia: la racconteremo nel prossimo articolo.

Martina Novelli

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