Il film è servito: breve dissertazione sul rapporto cinema-cibo (parte II)


Cinema e cibo. Dopo aver parlato di come questo binomio è stato trattato nel Neorealismo, andremo ad occuparci della successiva fase cinematografica italiana.

Negli anni Cinquanta il binomio cinema-cibo era essenzialmente popolare. La famiglia Passaguai (1951), ad esempio, ben rappresenta lo spirito del tempo, quando si iniziava a raggiungere un certo benessere economico. Aldo Fabrizi, mangiatore per eccellenza del cinema italiano, in questo suo film prepara tutto l’occorrente per una gita a Ostia il giorno di Ferragosto: frigge le cotolette, prepara gli spaghetti, ha cura di procurarsi un bel cocomero, freddo al punto giusto.

Altro rappresentante dell’amore per la buona tavola è Fra Bartolomeo di Fantasmi a Roma (Pietrangeli, 1961). Il fantasma (interpretato da Tino Buazzelli, famoso per aver dato il volto ad un gourmand come Nero Wolfe) ha visto nel cibo la causa della sua morte (polpette avvelenate), eppure continua ad apprezzare la cucina, influenzando le scelte culinarie dei viventi che gli capitano a tiro.

È questa l’epoca di film che sono entrati nell’immaginario collettivo: come I soliti ignoti (Monicelli, 1958) in cui i protagonisti, ladri improvvisati e un po’ sfortunati, invece che arrivare al tesoro del Monte di Pietà sbucano in una cucina, dove si consolano con pasta e ceci ed involtini al sugo. Del resto si sa, rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria altrimenti, al massimo si può andare a lavorare!

L’immagine che tutti hanno in mente, quando si parla di cibo, è però quella di Totò che balla sul tavolo di Miseria e Nobiltà (Mattoli, 1954). Dopo aver assistito, quasi increduli, alla preparazione della tavola, con tanto di pesci e polli arrosto a sfilargli sotto il naso, i protagonisti iniziano cautamente ad avvicinarsi al desco fino a non resistere più: arraffano spaghetti a più non posso, mettendoli addirittura nelle tasche del soprabito. Anche se in maniera giocosa e nonostante l’ambientazione non contemporanea, è messa in scena la fame quasi atavica che ancora era ben presente nell’Italia del Secondo dopoguerra.

Gli anni Cinquanta sono anche il periodo nel quale viene “scoperta” l’America, dopo la censura fascista. Un americano a Roma (Steno, 1954) mostra l’egemonia culturale che gli Stati Uniti, vincitori della guerra e “portatori di benessere” attraverso il Piano Marshall, avevano sull’Europa post-bellica. Il personaggio di Alberto Sordi, Nando Moriconi, incapace di accettare la sua condizione di italiano, è sempre pronto a travestirsi e ad atteggiarsi da americano: maglia bianca, stivaletti in pelle, motocicletta… perfetta parodia de Il selvaggio con Marlon Brando. C’è una cosa, tuttavia, che Nando non riesce proprio ad imitare, ed è proprio la cucina: spiega alla madre la superiorità del cibo americano rispetto a quello italiano, esibendo un piatto da lui stesso preparato, ma finisce col tornare ai classici maccheroni.

L’opulenza del cibo è stata utilizzata come simbolo del tramonto di una classe sociale. Il Timballo di maccheroni de Il Gattopardo (1963), fatto preparare con grande cura da Visconti, seguendo la ricetta originale, rappresenta la caduta dei valori nobiliari: nel perfetto rito alimentare offerto dal Principe di Salina, si esplica la contrapposizione tra la perfezione della forma esteriore e il crollare delle virtù interiori della nobiltà siciliana del XIX secolo.

Se esisteva un uomo in grado di unire cibo e cinema, questi era senza dubbio Ugo Tognazzi. Perfetta fusione fra attore e chef, lui stesso ha dichiarato: “Ho la cucina nel sangue. Il quale, penso, comprenderà senz’altro globuli rossi e globuli bianchi, ma nel mio caso anche una discreta percentuale di salsa di pomodoro. Io ho il vizio del fornello. Sono malato di spaghettite. Per me la cucina è la stanza più shocking della casa. […] Conosco le entrate di servizio e i cuochi dei migliori ristoranti d’Europa. […] L’attore? A volte mi sembra di farlo per hobby. Mangiare no: io mangio per vivere.”

Nel suo ultimo film, Tolérance (Pierre-Henry Salfati, 1989) interpreta Marmont, gastronomo gaudente ai tempi del Direttorio, che vuole convertire ai piaceri della tavola un certo Assuerus, il quale si rivelerà poi un falso asceta.

Nel film L’anatra all’arancia (Salce, 1975) Tognazzi porta in tavola la leccornia, dichiarando poi di aver preparato lui stesso il piatto con aggiunta di “piticarmo della Polinesia”, una spezia afrodisiaca inventata al momento, che gli fornisce l’occasione di prendersi gioco della moglie e del suo amante francese.

Ne La califfa (1970), trasposizione cinematografica di Alberto Bevilacqua del suo stesso romanzo, Tognazzi detta alla macchina da presa la ricetta giusta del pesto alla genovese.

L’attore ha anche interpretato Trimalcione, personaggio petroniano famoso per la sua cena, nel Satyricon di Gian Luigi Palidoro (1969).

Negli anni Settanta l’iconografia del cibo comincia a cambiare aspetto e l’attenzione si sposta sull’individuo: il cibo diventa sfogo emotivo, compensatorio, psicologico. Riprenderà da qui il prossimo ed ultimo articolo, che arriverà al cibo nel cinema del XXI secolo.

Martina Novelli

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