Il vino fraudolento – Una breve rassegna di casi di frode in commercio
Analizziamo il reato più frequente in caso di frodi alimentari contro il vino attraverso alcune vicende significative affrontate dalla Corte di Cassazione
Quando ci sono di mezzo truffe e imbrogli sul cibo e sul vino, quello che non manca quasi mai è il reato di frode in commercio, come si ricordava nel post della scorsa settimana. E’, pertanto, il caso di dedicare qualche parola in più a questo delitto.
La frode in commercio, secondo l’articolo 515 del codice penale, viene commessa da chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, consegna all’acquirente una cosa mobile di qualsiasi natura per un’altra, oppure una cosa mobile per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita.
Il cuore del reato è la consegna da parte del venditore di una cosa al posto di un’altra rispetto a quella che ha costituito oggetto dell’accordo tra chi vende e chi compra.
Questo crimine ha una storia antichissima.
Già nell’antico Egitto si rinvengono disposizioni volte a punire gli attentati alla fiducia commerciale e a Roma le frodi erano tanto frequenti che fu istituito un magistrato ad hoc, il Prefetto dell’annona. All’epoca dei comuni la repressione del fenomeno frodatorio è ampia e severa, come attesta la dettagliata casistica di vari statuti comunali in materia di vendita di generi alimentari di prima necessità (pane, farine, sale, vini, ecc.)
Per venire a tempi assai più vicini a noi – prendendo spunto dalla storia illegale dell’articolo precedente – può risultare interessante – sia per gli addetti ai lavori che per i semplici interessati alla materia – una rapidissima carrellata di alcune tra le più recenti vicende di frode in commercio in materia di vino approdate in Cassazione.
La prima sentenza che merita una citazione è del 2013. Arriva alla Suprema Corte uno dei tanti fatti di vino “zuccherato” (sulla questione spinosa dello zuccheraggio del vino e simili si tornerà in un prossimo post), e i giudici del Palazzaccio sanciscono che si ravvisa il reato di cui all’art. 5, lett. a), L. n. 283/62 – quella che è ancora la legge sulla tutela penale della sicurezza alimentare – insieme al delitto di tentata frode in commercio, nel caso di aggiunta ad un vino di acqua e barbabietola da zucchero, dato che tale trattamento varia la composizione naturale del prodotto, a prescindere dalla sua nocività. In quel caso, non c’era stata la consegna del bene (ossia, del vino) dal venditore al compratore, per questo la frode è solo “tentata”; in compenso, il responsabile è stato condannato anche per il più lieve reato previsto dalla legge del 1962 che scatta in presenza di sostanze alimentari private anche in parte dei propri elementi nutritivi o mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne la composizione naturale.
Pochi anni dopo, è la volta di un soggetto che cerca di ottenere l’idoneità per la commercializzazione di un prodotto falsamente designato come vino DOC Salice Salentino “Riserva”: viene, quindi, imputato anch’egli di tentata frode commerciale. Nella lunga pronuncia, la Cassazione afferma, tra gli altri, un principio fondamentale in questa materia: l’unico modo perché un prodotto alterato non integri il reato di frode in commercio è che esso semplicemente non venga destinato alla vendita. Se, invece, la destinazione di quel prodotto è proprio la vendita, il reato in questione scatta inevitabilmente, quantomeno nella forma tentata (come si è visto sopra), senza che sia necessaria neppure una contrattazione finalizzata alla vendita: è sufficiente, infatti, che venga accertata la destinazione alla vendita di un prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite. Se poi vi sarà anche la materiale consegna del prodotto, allora la frode sarà pienamente consumata.
L’ultima vicenda che si prende brevemente in considerazione riguarda una partita di bottiglie di vino destinate al mercato danese e sequestrate poiché non erano presenti nel vino i vitigni corvino, croatina e rondinella, contrariamente a quanto risultante dalle indicazioni sulle etichette apposte sul retro delle bottiglie. Ebbene, anche in questo caso, la Suprema Corte ha ritenuto sussistesse il reato di tentata frode in commercio a causa della diversa composizione del vino detenuto per il commercio dal produttore rispetto a quanto indicato nelle etichette collocate sulle bottiglie.
In conclusione, l’accusa di frode in commercio può scattare in una lunga e variegata serie di casi: da quelli particolarmente gravi a quelli assai più veniali, e in quest’ultimo caso può riguardare anche produttori onesti ma, in qualche occasione, non molto avvertiti.
I principi giuridici che si sono rammentati sopra possono costituire un’ottima bussola per questi ultimi per evitare che un infortunio di produzione o di commercializzazione diventi un procedimento penale a carico.
Pubblicato su La legge per tutti il 9\1\2021
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