Il vino innaturale – Di studi indipendenti, di glifosato, di principio di precauzione e di altre sciocchezze


Roundup is everywhere.”

È l’incipit dell’executive summary, il riepilogo generale, di uno studio pubblicato appena pochi giorni fa in materia di rapporto tra glifosato – o meglio, il suo principale marchio di riferimento, il Roundup della nota Monsanto, oggi Bayer – e alcuni vini e birre di largo consumo negli Usa.

Il lavoro scientifico è stato commissionato dalla U.S. PIRG, la storica federazione statunitense delle associazioni della cittadinanza attiva fondata nel 1971 da Ralph Nader.

La ricerca ha indagato l’eventuale presenza del noto erbicida in 20 tra i più diffusi marchi di vino e birra negli Stati Uniti.

In 19 di essi, si sono rivenute tracce, più o meno cospicue, di Roundup.

Lo studio dà atto che i livelli di glifosato riscontrati sono al di sotto dei limiti fissati dall’EPA, l’Agenzia di protezione ambientale Usa.

Ciononostante, l’autrice, Kara Cook, non può non rammentare che “è possibile che anche bassi livelli di glifosato possano essere problematici. Ad esempio, in uno studio, gli scienziati hanno scoperto che una sola parte per trilione di glifosato ha il potenziale per stimolare la crescita delle cellule del cancro al seno e disturbare il sistema endocrino.”[1]

Il glifosato, nel marzo 2015, è stato classificato come “probabile cancerogeno” (Gruppo 2A) dalla IARC, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, che fa parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite.

Probabile cancerogeno” vuol dire che “esiste una limitata evidenza di cancerogenicità negli umani e una sufficiente evidenza di cancerogenicità negli esperimenti sugli animali.” A sua volta, “limitata evidenza significa che è stata osservata una positiva associazione tra l’agente e il cancro, ma possono essere escluse anche spiegazioni alternative.”[2]

Pochi giorni fa, è stato pubblicato un altro studio in materia di effetti sulla salute del glifosato.

Si tratta di una meta-analisi dell’Università di Washington, ossia una ricerca particolarmente rilevante perché “fornisce l’analisi più aggiornata delle correlazioni tra glifosato e il linfoma non-Hodgkin, includendo uno studio del 2018 su oltre 54.000 persone che nelle loro attività lavorative utilizzano pesticidi autorizzati”, come ha spiegato Rachel Shaffer, co-autrice della ricerca.

L’esito del lavoro scientifico in questione è difficilmente equivocabile: “Complessivamente, in accordo con le evidenze che vengono dagli studi sperimentali sugli animali e da quelli meccanicistici, la nostra attuale meta-analisi degli studi epidemiologici umani suggerisce un legame convincente tra esposizioni al GBH (glifosato, ndr) e aumento del rischio di NHL (linfoma non Hodgkin)’.[3]

Non è proprio scontato che il rapporto tra glifosato e vino sia un’esclusiva degli States, per dirla con un eufemismo.

Meno di due anni fa, per esempio, uno studio dell’Università di Bolzano accertò che l’uso del glifosato per controllare le malerbe nei vigneti può alterare il mosto del Gewürztraminer.

Ora, pur essendo preoccupanti gli effetti dell’erbicida sulla qualità del vino altoatesino (che chi scrive, peraltro, ha particolarmente a cuore), alla stregua di quanto esposto sinora in questo post il dato più inquietante della scoperta dell’Università di Bolzano, forse, riguarda la presenza in sé di glifosato sulle uve da cui poi si è prodotto quel vino. Che, poi, qualcuno ha bevuto.

Qualche settimana fa è stato reso noto un rapporto commissionato da eurodeputati di Verdi, S&D e Gue in ordine alla procedura di rinnovo dell’autorizzazione all’uso del glifosato conclusasi poco più di un anno fa con la nota decisione dell’Unione Europea di rinnovo quinquennale. Secondo il rapporto, l’agenzia federale tedesca per la valutazione dei rischi, la Bfr, che ha effettuato la valutazione del rischio, avrebbe seguito peculiari protocolli scientifici nella stesura della propria relazione. Tipo il copia – incolla di oltre il 50% degli studi che i produttori, tra cui la Monsanto, avevano presentato a sostegno della domanda di rinnovo della licenza. In pratica, il controllato ha scritto più della metà del parere rilasciato dal controllore. Parere che, curiosamente, alla fine è stato favorevole.

Qualche innocente domanda finale:

  • quanto è compatibile quell’autorizzazione con alcuni principi fondamentali dell’Unione Europea: tipo quello per cui “la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela” e di “protezione della salute umana” ( 191, TFUE)?
  • quante e quali “informazioni disponibili” bisognerà ancora accumulare prima che “venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico”, sì che possano finalmente “essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue”? ( 7, Reg. CE 178\2002). Insomma, quand’è che si potrà applicare il principio di precauzione al glifosato?
  • cosa stiamo ingerendo, precisamente, e a quali conseguenze ci stiamo esponendo (oltre a quelle proprie dell’alcool) quando beviamo un bicchiere di vino?

 

[1](“it is possible that even low levels of glyphosate can be problematic. For example, in one study, scientists found that part per trillion of glyphosate has the potential to stimulate the growth of breast cancer cells and disrupt the endocrine system.”).

[2] (“Group 2A means that the agent is probably carcinogenic to humans. This category is used when there is limited evidence of carcinogenicity in humans and sufficient evidence of carcinogenicity in experimental animals. Limited evidence means that a positive association has been observed between exposure to the agent and cancer but that other explanations for the observations (called chance, bias, or confounding) could not be ruled out. This category is also used when there is limited evidence of carcinogenicity in humans and strong data on how the agent causes cancer.”)

[3] (“Overall, in accordance with evidence from experimental animal and mechanistic studies, our current meta-analysis of human epidemiological studies suggests a compelling link between exposures to GBHs and increased risk for NHL.“)

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