Il vino, l’Alsazia e noi


Se è vero che un viaggio è un’emozione, non soltanto un fatto, come diceva Mario Soldati, è altrettanto indiscutibile che un viaggio serio dovrebbe servire anche, se non soprattutto, ad arricchire il bagaglio di conoscenza e di intelligenza del viaggiatore.

Questi principi valgono pure quando lo spostarsi da un luogo ad altri hanno il loro “movente” principale nel vino, come insegnava sempre quel signore su citato che, pur dichiarandosi “simpatizzante inesperto” della materia, era in realtà grandissimo conoscitore, tra l’altro, di terre e di vini.

Visitare una zona come l’Alsazia, ammirare il suo paesaggio segnato in maniera tanto strutturale quanto armoniosa dalla vite, degustare i suoi vini direttamente nelle cantine produttrici – serviti dagli stessi viticultori – per esempio, significa toccare letteralmente con mano il concetto di terroir, costitutivo dell’idea e della pratica di vino di quella regione.

Vedersi portare in un cestino, durante la degustazione, insieme alla bottiglia da assaggiare, un campione di roccia indicativo del tipo di suolo e di sottosuolo del gran cru di turno e sentirsi spiegare in modo piano e scientifico, senza alcuna concessione allo “storytelling”, l’influenza di quel tipo di terreno sul prodotto che si ha nel calice davanti vuol dire capire che lì il terroir è considerato “solo” un elemento qualificante, se non discriminante, nel risultato finale di un procedimento di vinificazione; non un pretesto narrativo per la “comunicazione” del vino, ossia un tormentone di marketing.

Sentir parlare, con competenza e sobrietà, alcuni produttori delle peculiarità di un loro vino come essenzialmente riconducibili a un determinato, più o meno piccolo, appezzamento di terreno significa cogliere che – salvo il profilo normativo degli stessi gran cru, di cui si diceva, nell’ambito della denominazione – per quelle persone, fondamentalmente, quel vino non è migliore o peggiore di un altro: è semplicemente diverso.

Che poi, in fondo, è il principio ispiratore del concetto stesso di denominazione di origine e di indicazione geografica, come disciplinati in ambito unionale, di un certo prodotto alimentare, vino compreso: il legame “costituente” con il territorio.[1]

Impostazione che, con buona probabilità, non è estranea al successo, tanto meritato quanto macroscopico, dei vini di quella regione nel loro complesso, pur così orgogliosamente e consapevolmente rivendicati come diversi l’uno dall’altro dai loro produttori: successo di qualità, di pubblico e di mercato, a partire dal discorso – organicamente perseguito dal territorio nella sua generalità, in primis dagli enti di promozione turistica – della “Route des vins d’Alsace”, la Strada dei vini “d’Alsazia”.

Insomma, un sistema fatto di capacità di tenere insieme terroir vitivinicolo, con tutte le sue prerogative più o meno qualificanti, e territorio in senso socio – economico, inteso in maniera lucidamente unitaria.

Una storia che sembra un po’ lontana da scenari e “narrazioni” nostrani dove, in materia enoica, si possono osservare fenomeni tra loro non proprio coerenti: tipo, da un lato, un numero pressoché spropositato di denominazioni e indicazioni d’origine che, sommate tra loro, hanno ormai ampiamente superato il mezzo migliaio di unità; senza che, in non pochi casi, siano chiarissimi – disciplinare di produzione alla mano – i tratti biochimici e\o organolettici distintivi di quel prodotto rispetto ai suoi simili nel resto dell’Unione Europea. E, soprattutto, senza che siano particolarmente esplicati, sempre in sede di disciplinare, i fondamentali legami tra le presunte peculiarità del vino de quo e quelle, parimenti postulate, del suo “particolare ambiente geografico e dei suoi fattori umani.

Polverizzazione di denominazioni che – forse non è arbitrario supporre – coltivata con il consueto spirito nazionale non proprio connotato da senso del generale e priorità degli interessi collettivi potrebbero non schiudere proprio magnifiche sorti e progressive al “sistema Italia”, in ambito vitivinicolo, nel suo complesso.

A fianco a questo scenario di frammentazione capillare, poi, è dato assistere, in alcune occasioni, a curiosi fenomeni speculari e contrari tipo l’acuta intuizione del “vino d’Italia” – che ha impreziosito le cronache enoiche estive e, sotto non pochi profili, sollazzato i più sagaci tra gli addetti ai lavori e i loro lettori. Un prodotto che, pur essendo qualificabile giuridicamente come un normale vino da tavola (come il Tavernello, chiedendo scusa per il didascalismo), volava leggiadramente nell’empireo di due tra le denominazioni più prestigiose nazionali.

Senza che, peraltro, nessuno gli avesse dato l’autorizzazione a entrare in quei cieli; ma, soprattutto, a evocarne il nome, ossia la medesima denominazione.

Anche perché del concetto stesso di denominazione, ossia di quel peculiare e fondativo rapporto col territorio, per quanto sopra sinteticamente accennato quel vino è la plastica negazione.

L’Alsazia è lontana.

 

[1] Ai sensi del Regolamento 1308\2013, un vino a denominazione di origine è quello le cui qualità e le caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente al territorio da cui prende il nome, più precisamente a “un particolare ambiente geografico e ai suoi fattori naturali e umani” (art. 93).

 

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