La salsiccia “anonima” e l’ordine alimentare – Note a margine di una sentenza “ardita”


In questo blog, ci siamo già occupati più volte del reato di detenzione per la vendita di alimenti in cattivo stato di conservazione – previsto dalla legge n. 283\1962 all’art. 5, lett. b) – esaminando l’illecito sotto i vari profili che sono stati, di volta in volta, all’attenzione della Corte di Cassazione.

Pochi giorni fa, la Suprema Corte ha depositato una nuova sentenza (Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 25-10-2019) 12-12-2019, n. 50348).

Stavolta si tratta di salsiccia.

Un commerciante è stato prima imputato e poi condannato dal Tribunale di Rieti perché “deteneva per la vendita presso il suo esercizio commerciale 18 Kg di salsiccia di cinghiale senza indicare la provenienza delle carni utilizzate per la produzione.”

L’imputato ha impugnato per cassazione la sentenza di condanna di primo grado, sostenendo che “tale condotta non integrava il reato contestato in quanto le salsicce non erano in cattivo stato di conservazione mentre la norma incriminatrice richiede la sussistenza di un pericolo, sia pure astratto, che le modalità di conservazione dei generi alimentari danneggino la salubrità degli stessi.”

La Cassazione ha rigettato il ricorso sulla base di una serie di considerazioni in diritto.

Tra le più significative, le seguenti: “la L. 30 aprile 1962, n. 283, art. 5, lett. b), mira ad assicurare che il prodotto sia ben conservato e, perciò, ad imporre le idonee modalità di conservazione delle sostanze alimentari che si ricavano dalla stessa L. n. 283 del 1962, dal relativo regolamento di esecuzione e da altri regolamenti e disposizioni ministeriali, dalle regole di comune esperienza produttiva e commerciale di specifici generi alimentari.”

Ancora, i giudici del Palazzaccio, rifacendosi a vari precedenti, hanno sancito che “ai fini della configurabilità del reato in esame, non vi è la necessità di un cattivo stato di conservazione riferito alle caratteristiche intrinseche delle sostanze alimentari, essendo sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, che devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza.”

Infine, hanno ravvisato nel comportamento dell’imputato “una violazione del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare al consumatore che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche e di conservazione, che involgono anche le regole sulla tracciabilità del prodotto.

Nonostante, la motivazione comunque articolata e i vari precedenti citati dalla Corte a sostegno della sua decisione, la sentenza lascia perplessi.

Anzitutto, perché il concetto di “cattiva conservazione” sembra “tirato” fino a un livello difficilmente compatibile con una serie di principi fondamentali del nostro ordinamento penalistico (tassatività, tipicità, determinatezza….), tenendo conto della lettera e dello spirito della norma penale in questione.

In secondo luogo, perché questa sentenza risulta in contrasto abbastanza stridente con altre recentissime pronunce della Suprema Corte, che evidentemente, in quei casi, ha applicato in modo ben più rigoroso proprio quei fondamentali principi di garanzia cui si faceva riferimento sopra. Decisioni, queste ultime, estremamente rilevanti anche perché emesse in materie “nevralgiche”, e affini a quella in questione, quali il rapporto tra vendita di alimenti oltre il loro termine di scadenza e cattivo stato di conservazione degli stessi. In quel caso – che pure abbiamo affrontato in vari post – la Corte ha affermato che la commercializzazione di prodotti alimentari confezionati, per i quali sia prescritta l’indicazione “da consumarsi preferibilmente entro il…”, o quella “da consumarsi entro il…”, non integra, ove la data sia superata, alcuna ipotesi di reato, ma solo un illecito amministrativo, a meno che non sia accertato in concreto lo stato di cattiva conservazione delle sostanze alimentari.

Una tutela piena ed effettiva dell’ordine alimentare, e dei valori “satelliti”, è fondamentale e prioritaria.

Non è scontato che forzature interpretative come quella contenuta nella sentenza esaminata in questo post risultino la strada migliore per perseguire quell’obiettivo.

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