La tutela del vino: secondo il “testo unico” e secondo il codice penale
Nell’ultimo post, si è accennato, tra l’altro, all’ennesimo attacco a due prestigiose DOCG, nella classica forma dello sfruttamento illegale e parassitario del nome dei vini.
Si è anche fatto un veloce riferimento alle sanzioni penali previste per reprimere queste condotte.
La questione offre lo spunto per iniziare a dare un’occhiata alle sanzioni che contiene il cosiddetto “Testo unico del vino”, ossia la legge 12 dicembre 2016, n. 238.
Per restare in tema di tutela dei vini a denominazione di origine o a indicazione geografica, per esempio, è il caso di ricordare l’art. 69, c. 7, per il quale «Salvo che il fatto costituisca reato, chiunque produce, vende o comunque pone in vendita come uve destinate a produrre vini a DO e IG uve provenienti da vigneti non aventi i requisiti prescritti dalla presente legge è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da 300 euro a 1.000 euro.»
La norma, com’è evidente, prevede una sanzione amministrativa, non penale.
Tuttavia, la prima osservazione riguarda l’inciso iniziale, “salvo che il fatto costituisca reato”.
E’ una cosiddetta “clausola di riserva” e significa semplicemente che se i comportamenti descritti subito dopo (“chiunque produce, vende o comunque pone in vendita…”) costituiscono reato, ossia sono previsti anche da una norma penale, si applica quest’ultima – e dunque la pena – e non la sanzione amministrativa.
Quella clausola, peraltro, ricorre frequentemente nelle sanzioni previste dal Testo Unico, proprio perché, evidentemente, il legislatore voleva permettere l’applicazione della sanzione penale (che si ritiene, più o meno a ragione, più efficace in chiave di tutela) invece di quella amministrativa per i fatti ritenuti più gravi.
Orbene, praticamente tutte quelle stesse condotte (tranne quelle di produzione) previste dall’art. 69, c. 7, possono rientrare perfettamente anche in due diverse figure di reato, in via alternativa: la “frode nell’esercizio del commercio”, prevista dall’art. 515 del codice penale, o la “vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine”, disciplinata dall’art. 516 dello stesso codice.
Per tirare le conclusioni pratiche (provvisorie), in tutti i casi in cui gli ispettori dell’ICQRF – l’Ispettorato centrale repressione frodi – accertino che sono state vendute (o poste in vendita) come uve per la produzione di vino a DO e IG uve che non possedevano tali requisiti, sussisterà per costoro, in qualità di ufficiali di polizia giudiziaria, l’obbligo di trasmettere gli atti alla competente Procura della Repubblica, perché il pubblico ministero (che è colui che dirige le indagini in un procedimento penale) accerti se ricorrano gli estremi del reato di frode nell’esercizio del commercio o di vendita di sostanze non genuine come genuine.
Ciò comporta, inevitabilmente, che gli stessi accertatori dell’ICQRF non potranno più irrogare alcuna sanzione amministrativa con riferimento agli stessi fatti per i quali avranno trasmesso la notizia di reato in Procura.
Il reato prevale sull’illecito amministrativo, come si diceva sopra; con tutte le conseguenze, sostanziali e processuali del caso.
Cosa questo comporti realmente per il contravventore e per i consumatori lo si vedrà successivamente.
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