La tutela penale delle denominazioni – Il caso del (non) Barolo


Il Barolo è fatto dalle uve di Nebbiolo.

Ma per fare un Barolo Docg il vitigno è una condizione tanto necessaria quanto insufficiente.

Bisogna rispettare tutte le prescrizioni del disciplinare, come in qualsiasi altro vino a denominazione, peraltro.

In via preliminare, è il caso di ricordare che il disciplinare di produzione è sostanzialmente un testo normativo di “autogoverno” dei produttori di un determinato tipo di vino. Più precisamente, è un atto di autonormazione da parte dei citati diretti interessati relativo alle complessive modalità e caratteristiche di produzione di un dato vino, con specifico riferimento a una serie di parametri, in vigna e in cantina, ambientali e antropici. Esso trova la sua principale fonte di regolamentazione normativa nel Regolamento dell’Unione Europea n. 1308\2013, per il quale un vino a denominazione di origine è quello le cui qualità e le caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente al territorio da cui prende il nome, più precisamente a “un particolare ambiente geografico e ai suoi fattori naturali e umani” (art. 93).

Nel caso del vino in questione, la regolamentazione vuole che “le operazioni di vinificazione e di invecchiamento obbligatorio devono essere effettuate nella zona delimitata nell’art. 3.” (art. Articolo 5 Disciplinare Barolo DOCG – Norme per la vinificazione).

Il senso della previsione è quello di tenere sotto controllo, nell’ambito della zona di produzione delle uve, tutto il processo che dalla vigna porta alla bottiglia.

Per poter godere della denominazione Barolo, dunque, i produttori devono produrre le uve e vinificarle esclusivamente nelle zone che indica il disciplinare.

Un produttore ha pensato, invece, di vinificare le sue uve, che pure erano di Nebbiolo e venivano dall’area di produzione del Barolo prevista dalla norma, fuori da quella zona; più precisamente, erano le operazioni di deraspatura, pigiatura, fermentazione e pressatura che venivano eseguite “all’esterno”, presso un altro stabilimento dell’azienda.

La cosa non avrebbe avuto rilievo di alcun tipo, se il viticultore in questione non avesse pensato di imbottigliare il suo prodotto come Barolo, con tanto di etichetta della Docg.

E questo ha comportato anzitutto un rilievo penale della vicenda.

Infatti, nel 2009 è stato introdotto nel codice penale un nuovo reato teso a garantire una specifica tutela ai prodotti agroalimentari a indicazione geografica o denominazione di origine: quello previsto dall’art. 517 quater.

Il delitto in questione punisce anzitutto “chiunque contraffà o comunque altera indicazioni geografiche o denominazioni di origine di prodotti agroalimentari”.

Come si è già illustrato in altro post dedicato all’argomento, la Suprema Corte, nell’unica sentenza in cui ha avuto modo di occuparsi in maniera organica di questo illecito penale – stando a quanto risulta dalle principali banche dati giuridiche – ha affermato principi interpretativi di grande importanza.

Il procedimento penale vedeva come imputato un produttore di vino che aveva indicato nelle etichette apposte su alcune bottiglie di vino, destinate al mercato danese, la presenza dei vitigni corvino, croatina e rondinella, poi risultati assenti.

La Cassazione, nel confermare sostanzialmente (tranne che per un profilo) la sentenza che era stata impugnata, ha sancito che: 1) questa norma penale non richiede che le indicazioni fallaci siano idonee ad ingannare il pubblico dei consumatori, essendo finalizzata a proteggere l’interesse dei produttori titolati ad utilizzare le predette indicazioni o denominazioni; 2) né esige che l’origine del prodotto sia tutelata, ai sensi dell’art. 11 D.Lgs. n. 30 del 2005, attraverso la registrazione di un marchio collettivo, la cui contraffazione può pertanto integrare anche i reati di cui agli artt. 473 o 474 cod. pen. (Cass. pen. Sez. III Sent., 23/03/2016, n. 28354)

Un orientamento, quindi, quello della Corte di legittimità, assai rigoroso.

Per tornare alla vicenda concreta a base di questo articolo, sulla scorta dell’insegnamento della Suprema Corte il processo a carico del produttore di Barolo contraffatto (cui era stato contestato anche il reato di falsità ideologica) si è concluso con la condanna di costui, da parte del Tribunale di Asti, alla pena di sei mesi di reclusione e di seimila euro di multa, con confisca e distruzione dei contrassegni di Stato e registri di cantina, nonché del corpo del reato, ossia il vino “alterato”.

Triste fine per un aspirante Barolo.

 

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