Le cozze, l’escherichia coli, le analisi, il reato – Ancora un intervento della Cassazione sull’art. 5 della legge 283\1962
Il Tribunale di Messina condanna il legale rappresentante di una s.r.l. per l’ormai consueto reato di cui alla L. n. 238 del 1962, art. 5, comma 1, lett. C, “per avere detenuto per la vendita sostanze alimentari, nella specie cozze (…) che, sottoposte a controlli sulla contaminazione microbiologica, sono risultate affette da carica di escherichia coli pari a 3500/MPN/100g superiore al limite di legge.”
L’imputato propone ricorso per cassazione, sulla base di due distinti motivi entrambi relativi alle analisi a mezzo delle quali si era accertata la contaminazione.
Il primo riguarda la metodica utilizzata dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale che aveva proceduto: secondo il consulente tecnico dell’imputato, sarebbe stata non più in uso (la procedura corretta sarebbe quella ISO 2015 e non quella utilizzata del 2010, ed indicata nel certificato di analisi).
Il secondo motivo di ricorso consiste nel fatto che l’imputato non aveva mai avuto conoscenza del risultato delle analisi che evidenziavano una carica batterica e, quindi, non aveva potuto richiedere la revisione delle analisi, in violazione di una precisa norma del codice di procedura penale. Invece, le analisi di revisione avrebbero potuto fornire un risultato diverso, favorevole all’imputato.
La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza, respinge tutte le denunce e le richieste del commerciante, dichiarando il ricorso “inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi e per genericità.” (Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 01-10-2019) 15-01-2020, n. 1434)
In particolare, quanto alla questione della presunta obsolescenza della metodica di analisi, la Suprema Corte evidenzia che “la sentenza impugnata adeguatamente rileva come l’imputato non abbia specificato come e perché il metodo di analisi abbia leso il suo diritto di difesa o abbia comunque falsato il risultato delle analisi.”
I giudici del Palazzaccio, poi, ricordano che “nessuna inutilizzabilità risulta prevista dalla legge, per l’uso di un metodo scientifico.” E, infine, chiosano: “inoltre nessuna prova è stata fornita su un eventuale errore dei risultati.”
Quanto, poi, alla presunta violazione del diritto di difesa dell’imputato, che sarebbe stata rappresentata dalla mancata comunicazione all’imprenditore dell’esito delle analisi (allo scopo della richiesta delle analisi di revisione), la Corte è altrettanto perentoria: “si deve rilevare che gli alimenti sottoposti ad analisi (cozze) erano deteriorabili e, pertanto, era dovuto solo l’avviso dell’inizio delle operazioni per l’assistenza alle stesse.” E, a supporto di questa affermazione, la Cassazione cita una sentenza della Corte Costituzionale del 1990.
La Suprema Corte, infine, per corroborare ulteriormente la propria decisione, riepiloga in maniera puntuale e organica il quadro legislativo in materia di analisi e loro eventuale revisione, quando si verta in una vicenda processuale come quella oggetto di questa sentenza.
E’ il caso di riportare integralmente il passaggio in questione:
“In definitiva, il legislatore – considerando che le analisi dei campioni vengono effettuate pur sempre nell’ambito di una fase amministrativa – ha individuato due momenti differenti in cui sorge l’obbligo (pena la inutilizzabilità dei risultati delle stesse) di avvertire gli interessati per assicurare loro un’adeguata tutela: 1) subito dopo il campionamento ed in tempo utile per assistere alle prime analisi, per i campioni per i quali non è prevista la revisione; 2) dopo le prime analisi, quando la revisione sia possibile e venga richiesta dagli interessati, ed almeno tre giorni prima di essa. Ovviamente la concreta possibilità di effettuare la revisione delle analisi è collegata ad un dato obiettivo: la non deteriorabilità del campione, sussistendo altrimenti la fisica impossibilità di una reiterazione di esse; pertanto quando il campione non è deteriorabile, legittimamente viene esclusa dalla legge la partecipazione degli interessati alle prime analisi, giacché la revisione consentirebbe comunque, anche se in un momento successivo, di esercitare le garanzie difensive spettanti all’interessato. Una disciplina particolare è stabilita in relazione ai controlli microbiologici. Invero, in caso di sostanza alimentare classificata deteriorabile, ai sensi del D.M. 16 dicembre 1993, il D.Lgs. 3 marzo 1993, n. 123, pone – a carico del responsabile del laboratorio – l’effettuazione di una “preanalisi” su un’aliquota del campione, ovviamente senza alcuna tutela dei diritti della difesa, e l’obbligo, in caso di non conformità dello stesso, d’avvertire tempestivamente l’interessato, specificando il parametro difforme e la metodica seguita e comunicando il luogo, il giorno e l’ora in cui le analisi saranno ripetute “limitatamente ai parametri risultati non conformi”. Quindi, anche in tale ipotesi, la norma non prevede alcuna revisione di analisi non essendo essa assolutamente possibile con riferimento ad alimenti deteriorabili, bensì una ripetizione “garantita” di analisi effettuate inizialmente a solo fine conoscitivo, da espletare ovviamente a breve distanza di tempo da queste, su una seconda quota dello stesso campione.”
Prezioso promemoria per tutti gli Operatori della Sicurezza Alimentare, per i quali un procedimento penale di questo tipo costituisce un vero e proprio “rischio professionale”.
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