Le frodi contro l’olio evo e il cibo giusto: un problema di tutela penale del patrimonio alimentare


Una delle ultime perle di una lunga collana è arrivata pochi mesi fa, congiuntamente da nord e da sud (l’Italia che froda non ha problemi di unità nazionale): un’indagine condotta dalla Procura di Firenza ed eseguita dai Carabinieri del NAS di Firenze in collaborazione con personale dell’Ispettorato Centrale Repressioni Frodi – che ha visto anche persone tratte in arresto in stato di custodia cautelare – per i reati di riciclaggio e ricettazione di ingenti quantità di olio di semi etichettato fraudolentemente come olio extravergine di oliva, prodotto in Puglia ed immesso nel circuito commerciale in Toscana, a favore di numerosi operatori del settore alimentare (ristoranti, bar, panifici, venditori all’ingrosso di alimenti).

Più precisamente, è stata scoperta un’associazione per delinquere che gestiva il traffico di ingenti quantitativi di olio di semi di soia sofisticato (un flusso di circa 50 tonnellate) mediante l’aggiunta di clorofilla e betacarotene, non dannoso per la salute umana, ma in modo da renderlo simile all’olio extravergine di oliva e commercializzarlo con tale qualità, generando un notevole profitto illecito.

Mentre è in corso una stagione olearia che non manca di presentare il binomio contraddittorio, ormai consueto, tra ottima qualità del prodotto e pessimi guadagni per chi lo produce, una delle principali minacce per il settore resta, sempre e comunque, quella legata a truffe, frodi, contraffazioni e altre amenità simili.

Una minaccia che risulta ancor più temibile per la pochezza dei mezzi di contrasto alla stessa; ossia degli strumenti di tutela legale dell’olio buono, di chi lo fa e di chi lo consuma.

Almeno quelli di natura penale; che, però, di solito sono quelli che dovrebbero poter incidere in maniera più efficace sui traffici illeciti più inquietanti come quello su citato.

Il reato che si applica in questi casi è la frode in commercio, almeno nelle ipotesi più semplici (quelle, cioè, in cui non vengono contestati anche reati più gravi, come l’associazione per delinquere nel caso descritto in apertura di questo pezzo).

Reato che presenta, però, significative criticità, anzitutto legate al fatto che si tratta di una norma del 1930 – come il codice penale che la contiene, peraltro – epoca nella quale i fenomeni di frode non avevano proprio la natura e la pervasività di oggi; ma soprattutto nella quale non erano neanche immaginabili i mezzi tecnologici che oggi sono a disposizione di ogni tipo di truffatore, dal più artigianale al più organizzato. Tutti elementi che pongono problemi di adeguatezza del delitto di frode in commercio, per come è costruito letteralmente.

Il vero tallone d’Achille della figura di reato in questione, però, resta quello della pena, come in vari altri contesti in cui viene in rilievo la tutela del consumatore (e dei produttori onesti), quando non proprio della salute pubblica.

La reclusione fino a due anni o la multa fino a euro 2.065: questa è la sanzione, non proprio draconiana, che prevede l’art. 515 del codice penale, che disciplina la frode in commercio, per l’appunto.

Una sanzione che – come primo, devastante, effetto – prevede una prescrizione base di 6 anni dal compimento del reato.

In tanti tribunali di questo Paese non è proprio scontato, per usare un eufemismo, che in 6 anni (che, se ci sono quelli che vengono definiti “atti interruttivi”, possono arrivare al massimo a 7 anni e mezzo) si arrivi a una sentenza di condanna definitiva. E se non ci si arriva, il reato resta fatalmente impunito.

Non foss’altro che per questa ragione, una pena di questo tipo pone, pertanto, enormi questioni sulla sua effettività. Quindi, sulla reale efficacia deterrente di questo reato.

E, in ultima istanza, sulla stessa serietà di uno dei primi strumenti di tutela penale del “cibo giusto”, di chi lo mangia e di chi lo produce, da quelle aggressioni, tanto subdole quanto odiose, che sono le truffe, le frodi, le contraffazioni…

Sarebbero tutti ottimi motivi – insieme a tanti altri su cui si tornerà nei prossimi posts – per riprendere in considerazione l’ormai vecchia “idea” della riforma dei reati agroalimentari. Ma, soprattutto, per farla diventare al più presto legge dello Stato, dato che, da un lato sono ormai quattro anni che è pronto il relativo progetto, organico e dettagliato, redatto dalla Commissione Caselli; e, dall’altro, che l’Italia che froda non perde tempo e continua a fare alacremente il suo onorevole mestiere, sfruttando in ogni modo il sonno comatoso del legislatore italiano.

Se siamo anzitutto ciò che mangiamo, non mette proprio serenità il pensiero che ciò che mangiamo non goda di una seria tutela penale.

 

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