Le nuove forme di tracciabilità: potenzialità e rischi
L’art 2 comma 15 del regolamento (CE) 178/2002 introduce il concetto di «rintracciabilità», ovvero la possibilità (leggasi come doverosità) di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione.
È con questa previsione che entra nel diritto alimentare quel concetto-obbligo che impone a tutti gli attori della filiera di tracciare (da monte a valle) ogni fase di lavorazione delle produzioni (cfr. l’art. 18 del citato regolamento).
Questa è la c.d. tracciabilità obbligatoria a cui si abbina, volendo, una tracciabilità volontaria, ovvero, altri standard di sicurezza attraverso i quali rendere al consumatore finale maggiori garanzie, maggiori controlli, una comunicazione capace di aumentare la reputazione e l’immagine dell’azienda, nonché (di conseguenza) maggiore qualità e affidabilità (cfr. blockchain, datamatrix, qr code).
Ma cosa succede se il ‘concetto’ di tracciabilità volontaria va ad ingenerare nel consumatore finale la percezione che un prodotto sia più sicuro di un altro solo perché — l’uno a differenza dell’altro — dispone (anche) della tracciabilità volontaria e non soltanto di quella obbligatoria?
Tutto ciò è capace di creare rischi per i piccoli produttori impossibilitati ad aderire a forme di tracciabilità-rintracciabilità maggiori/diverse rispetto a quella imposta dal regolamento UE 178/2002?
Massimo Palumbo
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