Oggi Catania, dieci anni fa le Cinque Terre – Cronache da un paese coerente


Facebook mi ricorda queste mie note di un decennio fa.
 
Oggi Catania, dieci anni or sono le Cinque Terre.
 
Tutto si potrà dire di questo paese, fuor che manchi di coerenza. Almeno in ambito urbanistico e ambientale.
 
Anche nella catastrofe climatica.
 
Avanti così!
 
 
FINIS TERRAE
 
Si narra che molti secoli fa i capi di cinque paesini limitrofi, incastonati in una sontuosa ed aspra collina a strapiombo sul Mar Tirreno, divisi da feroce rivalità fra loro intorno al miglior vino prodotto dai cinque, decisero di rivolgersi a un eremita (che viveva su un’isoletta di fronte a Vernazza), studioso di erbe e della Bibbia, saggio e timorato di Dio, prodigo di consigli, investendolo del difficile compito di sciogliere lui la questione, designando il vino migliore dei cinque borghi.
 
L’anacoreta, ascoltati gli ospiti, chiese loro di portargli alcuni grappoli delle rispettive uve e di mantenere una tregua finché non avesse emesso un responso.
 
Dopo qualche tempo il saggio eremita convocò gli stessi capipopolo e offrì a ciascuno di loro una coppa di vino.
 
Per tutti risultò un vino nuovo, diverso, migliore di tutti quelli prodotti dai contendenti e di tutti quelli da loro conosciuti.
 
Tutti ne restarono entusiasti e lo lodarono assai.
 
Il savio giudice spiegò che quel vino era stato fatto con tutti i grappoli dei diversi vitigni che gli erano stati consegnati e i mosti ottenuti da quella loro peculiare cuvée avevano dato quella bevanda straordinaria.
 
I cinque borghi erano le Cinque Terre e il vino era lo Sciacchetrà, un grande vino passito, “da meditazione”, che oggi è uno dei simboli di quel mirabile ecosistema costituito, da est verso ovest, dai cinque paesini di Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza e Monterosso.
 
Lo Sciacchetrà (il cui nome deriva da «sciacàa», schiacciare, utilizzato semplicemente per indicare l’operazione di pigiatura dell’uva) è un emblema di quei territori anche e soprattutto perché è un vino, e il vino, più ancora che “della natura”, è un prodotto fondamentalmente dell’attività umana, della fatica e della cura dei vignaioli e dell’acume e della sapienza dei cantinieri.
 
Anche le Cinque Terre, in sé, sono un segno illuminante di quanto possa essere radicalmente opposto “l’impatto” del bipede umano sul territorio che lo ospita.
 
Le Cinque Terre, per come le conosciamo oggi (o, forse, per come le conoscevamo fino a martedì scorso) sono sostanzialmente una creazione umana, tanto più mirabile quanto più gli autori di quella creazione hanno saputo coniugare fatica, acume, sapienza in quell’attività creatrice e tanta cura per “l’oggetto” di quest’ultima: l’ambiente circostante.
 
I terrazzamenti realizzati con la terra portata con grandi cesti da contadini che si calavano da un piano all’altro appesi ad una corda a strapiombo sul mare, i muretti a secco, i vigneti “a tendone basso”, tanto basso che i vignaioli spesso dovevano lavorare la vigna inginocchiati, tutto questo parla di un rapporto degli uomini e delle donne di quei posti con la loro terra che era un autentico, simbiotico rapporto d’amore.
 
E, come in un vero rapporto d’amore, gli uni miglioravano, arricchivano, affinavano l’altra e viceversa.
 
Un legame amoroso degradato da qualche decennio in un feroce, implacabile stupro degli uni verso l’altra.
 
Una violenza tanto patologicamente distruttiva da aver fatto sperperare ai suoi responsabili, in una sola generazione, uno dei patrimoni antropici ed ecologici (e, dunque, anche economici) più inestimabili dell’umanità, in cambio di un miserabile incremento del patrimonio bancario.
 
Una furia devastatrice fatta di interminabili colate di cemento che rendono il terreno ovviamente del tutto impermeabile, colate molto più lunghe anche di quella di fango che ha sepolto parte delle Cinque Terre due giorni fa; di letti dei fiumi compressi da orrende escrescenze edilizie sugli argini e, dunque, non più capaci di canalizzare le piene derivanti dalle piogge, pur eccezionali come quelle dei giorni scorsi; di suolo divorato da metastasi di calcestruzzo; di campagne abbandonate a se stesse, e dunque ormai prive di qualsiasi ruolo di equilibrio idro-geologico, in nome della proliferazione neoplastica di alberghetti, pensioncine, b&b per attrarre branchi di turisti, molti dei quali sedicenti “sostenibili”.
 
E che queste dinamiche scellerate, in parte, non riguardino direttamente le Cinque Terre ma solo i territori vicini cambia di poco o punto il senso complessivo del discorso.
 
Qualche anno fa ho fatto parte anch’io del branco di cui sopra, della sua parte più “ecologicamente corretta”.
 
Sono rimasto incantato dall’acqua limpidissima del santuario dei cetacei, dalla scenografia pastello delle casette che declinano verso il mare, dal trenino che porta i visitatori e i loro bagagli nel borgo di Riomaggiore, rigorosamente vietato alle automobili, dal lirico sentiero dell’amore; sono stato deliziato dallo sciacchetrà e dalle alici di Monterosso (4 microcrostini 15 euro) degustate insieme ad un bicchiere di Vermentino di fronte a quel mare incontaminato.
 
E, forse, l’incanto eco-sostenibile, o presunto tale, di Riomaggiore mi ha suggestionato, mi ha fatto abbassare lo spirito critico ambientalista.
 
Non mi ha fatto porre alcuna domanda sul numero enorme di b&b che punteggiavano tutto il minuscolo centro storico (tra i quali v’era quello nel quale alloggiavo io, ovviamente); sulla quantità di “ospiti” che quelle strutture ricettive avrebbero potuto accogliere. Su quella che, invece, avrebbe potuto “sostenere” senza danni un ambiente peculiarissimo come quello di quel paesino.
 
Il gusto sapido delle alici di Monterosso, forse, ha impregnato di sé non solo le mie papille gustative, ha sviato la prima sensazione, quella più immediata, che mi provocò la prima immagine della stessa Monterosso, il paese più noto delle Cinque Terre: la fungaia di ombrelloni sulla spiaggia che mi ricordò epidermicamente la riviera Romagnola.
 
Forse bisognerebbe tenere la guardia alta anche quando si va in un Parco naturale.
 
Forse occorrerebbe provare a guardare oltre la cartolina naturalistica, per capire se si tratta davvero di una zona protetta. Per comprendere chi sono i suoi protettori. E per capire chi protegge quel territorio dai suoi protettori.
 
Forse si dovrebbe esplorare qualche itinerario “eccentrico” anche rispetto a quelli certificati come ecologici, per non dire ecologistici.
 
Forse sarebbe necessario provare a capire davvero quale sia complessivamente l’impronta ecologica di ogni nostro viaggio, almeno di quelli di piacere; soprattutto se sommata a quelle di migliaia di altri piedi che calcano quello stesso suolo, magari anche questi mossi da spirito di eco-compatibilità.
 
Forse coloro che davvero nutrono ambizioni di responsabilità dovrebbero abbandonare l’idea di poter andare sempre ovunque, perché ci sono posti, ecosistemi, troppo delicati per poter sostenere l’arrivo di tutti coloro che vorrebbero anche solo cantarne le lodi per la sostenibilità.
 
Forse l’idea che la mia libertà di “girare, vedere gente, muoversi, conoscere, fare cose”, non debba subire limiti è solo uno dei tanti epifenomeni del pensiero unico neo-liberale, e neanche tra i meno sgradevoli.
 
Forse, come insegnavano i sussidiari della scuola elementare dei miei tempi, quando si va in un posto nuovo occorrerebbe prima di tutto capire quante persone vi lavorano la terra, quali sono i prodotti tipici di quest’ultima e in che condizioni sono le terre di quel luogo.
 
In quel viaggio, dopo le Cinque Terre, feci tappa a Boves, una delle tante città martiri dell’occupazione nazista dopo l’8 settembre.
 
Non avevo immaginato nessun legame tra la prima parte del mio viaggio e la seconda.
 
Forse, nel mio cammino vacanziero di quell’anno, senza conoscerla, stavo visualizzando concretamente quella geniale intuizione di Andrea Zanzotto per la quale il dopoguerra, in molti posti, ha segnato il passaggio dai campi di sterminio allo sterminio dei campi.
 
28\10\2011

+ There are no comments

Add yours