Smaltimento senza autorizzazione dei liquami di un caseificio: è reato. Ed è punibile.


La Cassazione ha sancito che non si applica la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto quando il reato è commesso con condotte ripetute.

Interessante sentenza della Corte di Cassazione in materia di illeciti ambientali depositata pochi giorni fa. In particolare, la questione riguardava l’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto in un caso di smaltimento senza autorizzazione dei liquami di un caseificio.

Il fatto

Il titolare di un’attività casearia veniva ritenuto responsabile del reato di “gestione di rifiuti non autorizzata” prevista dal cosiddetto Testo Unico Ambientale in relazione allo smaltimento senza autorizzazione di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da liquami del caseificio. Per questo veniva condannato alla pena di giustizia.

Il ricorso per cassazione

L’imputato impugnava per cassazione la sentenza di condanna.

Il principale motivo di ricorso riguardava la mancata concessione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

In seconda battuta, il commerciante contestava anche la decisione del giudice di primo grado di imporre la pubblicazione della sentenza di condanna, perché questo avrebbe recato un danno d’immagine alla persona e all’attività commerciale gestita dall’imputato stesso.

La decisione

La Cassazione rigetta il ricorso e conferma la condanna.

Secondo i Giudici del Palazzaccio, la norma del codice penale – l’art. 131 bis – che disciplina la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto prevede quale condizione necessaria che il comportamento dell’autore del reato debba essere “non abituale”. Lo stesso articolo 131 bis precisa poi che comportamento abituale – e che dunque impedisce la non punibilità – è anche quello che si manifesta con condotte plurime, abituali, e reiterate.

La stessa Suprema Corte, peraltro, ha affermato che la non punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere applicata ai reati eventualmente abituali che siano stati realizzati mediante la ripetizione dello stesso comportamento illecito.

Nel caso in esame, afferma la sentenza, la rilevante quantità dei reflui smaltiti illecitamente (pari a ben 496.560 chilogrammi) sta di per sé a testimoniare la ripetizione delle condotte di reato contestate al titolare del caseificio. Pertanto, il reato non può essere considerato di particolare tenuità e il suo autore deve essere punito.

Quanto alla decisione del tribunale di imporre la pubblicazione della sentenza di condanna, la Cassazione afferma che è corretta anche questa. Secondo i Giudici, infatti, il danno d’immagine che secondo l’imputato ne deriverebbe a lui e alla sua attività e che, perciò stesso, secondo il commerciante renderebbe illegittima la decisione di primo grado rappresenta invece il senso stesso di questa sanzione aggiuntiva del condannato: una sanzione la cui finalità è la deterrenza, necessariamente collegata alla diffusione del mezzo di di informazione su cui verrà pubblicata la sentenza di condanna.

Sono principi di diritto difficilmente contestabili nella loro logica giuridica stringente, che, peraltro, costituiscono un utilissimo promemoria per chi esercita attività commerciali e deve maneggiare, oltre che gli attrezzi del mestiere, anche adempimenti e autorizzazioni amministrative in ambito ambientale. Che, a ben vedere, per l’impresa del terzo millennio devono ormai, anch’essi, esser considerati strumenti del mestiere.

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