Vaccino contro la brucellosi, maltrattamento di animali, reato di pericolo: interviene la Cassazione
L’inoculazione di vaccino Rb 51 a un animale – precisamente a un capo di bufala – al fine di contrastare la brucellosi, al di fuori dei casi previsti dalla legge, costituisce il reato di maltrattamento degli animali, sancito dall’art. 544-ter, co. 2, c.p. .
Ciò per il generale divieto di somministrazione del vaccino se non nel quadro di controlli dell’autorità e in periodi temporali e luoghi sottoposti alla puntuale verifica pubblica.
Fondamentale precisazione: è reato a prescindere dall’intrinseca rischiosità di tali condotte per la salute dell’animale.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione in una recentissima sentenza a carico di un allevatore campano che aveva impugnato la condanna comminatagli nel precedente grado di giudizio dalla Corte d’appello di Napoli.
Secondo la difesa dell’imputato, la Corte d’appello avrebbe erroneamente affermato che la somministrazione del vaccino RB51 fosse vietata in quanto produttiva di danni alla salute degli animali; in realtà, secondo la tesi difensiva, le ragioni dei divieti di inoculazione del suddetto vaccino non sarebbero mai state connesse ai rischi per la salute degli animali.
La Suprema Corte è stata di parere diametralmente opposto a questa impostazione.
Prima di tutto, ha ricordato che l’art. 544-ter c.p., comma 2, sanziona alternativamente due condotte, di cui la prima configura un reato di pericolo e la seconda, invece, un reato di danno. Nel primo caso viene punita la mera somministrazione di sostanze stupefacenti o vietate, a prescindere dall’accertamento dell’avvenuta realizzazione di un danno alla salute dell’animale. Dunque, tale condotta criminosa rappresenta un reato di pericolo presunto, in quanto il legislatore non richiede alcuna verifica in relazione alle conseguenze della suddetta somministrazione. Quest’ultima può avere ad oggetto sostanze stupefacenti, che possono consistere in qualsiasi sostanza con effetto psicotropo e stupefacente in senso lato, o sostanze vietate. Queste ultime, a loro volta, rispondono a un concetto normativo, che include tutte le sostanze, diverse da quelle stupefacenti, la cui somministrazione agli animali è vietata da una qualsiasi norma dell’ordinamento giuridico.
Su queste basi, la Cassazione ha ritenuto che il caso in questione rientrasse perfettamente nell’ipotesi delle “sostanze vietate” e che l’allevatore, quindi, avesse tenuto proprio la condotta punita dalla legge penale.
Di conseguenza, ha rigettato il ricorso e confermato la condanna.
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