Vino “fantasma” – Carenza di tracciabilità e declassamento: la Cassazione pone i paletti


La Suprema Corte ha confermato il sequestro di ingenti quantitativi di vino in un procedimento pendente per frode in commercio e altri reati. Ma le sanzioni previste sono effettive ed efficaci?

Il vino fantasma va prendendo corpo.

Ci eravamo occupati su questo blog, più o meno un anno fa, dell’ennesima operazione di contrasto all’enopirateria, in Puglia, denominata “ghost wine”, vino fantasma, avente ad oggetto in particolare condotte illecite in materia di carenza di tracciabilità e declassamento del vino.

I reati contestati agli indagati sono molteplici: associazione per delinquere finalizzata a commettere delitti di adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari, frode nell’esercizio del commercio, vendita di alimenti non genuini come genuini o con segni mendaci appartenenti a marchi di qualità, nonché ai relativi reati fine di cui agli artt. 515, 516, 517, 517-quater c.p. e L. n. 283 del 1962, artt. 5 e 6 per aver prodotto e posto in commercio ingenti quantità di vino adulterato e sofisticato, spacciato per genuino o con indicazioni false sull’origine e provenienza, sul marchio e sulla composizione.

Appena qualche giorno fa, è stata depositata la sentenza della Corte di Cassazione che rigetta tutti i ricorsi degli indagati e conferma il sequestro probatorio disposto dalla Procura di Lecce di grandi quantitativi di vino (Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 17-09-2020) 29-12-2020, n. 37616).

I passaggi più rilevanti della pronuncia in questione sono certamente quelli relativi a ciò che era emerso dagli accertamenti effettuati dall’ufficio ICQRF Italia Sud-Est: ossia che ben 18.467,59 hl. di vino non trovavano giustificazione nella documentazione ufficiale di cantina e, quindi, erano detenuti in eccedenza, in violazione della L. n. 238 del 2016 (il cosiddetto “Testo Unico del vino”), art. 72.

Il Pm aveva disposto il sequestro probatorio di quelle quantità e di ulteriori ingenti quantitativi (14.596,56 hl, 77.383,37 hl e 3.462 hl), rinvenuti negli stabilimenti degli indagati, di “vino declassato in vino rosso zona vinicola e quindi non inquadrabile nelle aree geografiche tipiche indicate dall’azienda.”

Ciò posto, la Suprema Corte ne fa derivare – in conformità a quanto già affermato dal Tribunale del riesame di Lecce – la sussistenza del cosiddetto “fumo del delitto” in relazione “sia alla carenza di tracciabilità del prodotto, che potrebbe perciò essere adoperato per effettuare tagli in difformità al disciplinare o quale base per la sofisticazione, sia al declassamento del vino rispetto all’indicazione geografica riportata, potendo il vino declassato essere venduto con segni mendaci sulla qualità, sulla denominazione di origine controllata o sulla indicazione geografica tipica, come già accertato in relazione ad altro prodotto nel corso delle indagini preliminari.”

In conclusione, a parte la vicenda specifica e le relative responsabilità individuali che saranno accertate in dibattimento, è evidente che quello che subiscono in maniera pressoché ininterrotta i prodotti alimentari – nella specie il vino – di qualità in questo paese, più precisamente quelli a denominazione di origine o a indicazione geografica, è un autentico assalto alla diligenza.

Quindi, bisognerebbe spendere qualche parola sull’effettività ed efficacia delle norme di tutela, specie quelle di natura penale.

Ma sul punto non abbiamo che da rinviare in toto a quanto scrivevamo alla fine dell’articolo di un anno fa: la situazione è ancora, tristemente, la stessa. E’ passato solo un altro anno a vuoto.

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