Vino naturale e sua regolamentazione – Dalla Francia novità importanti. E buoni esempi


Sono arrivati per primi i francesi; ça va sans dire.

Alla prima qualificazione normativa del vino naturale, s’intende.

Nel Paese dove è stata generata di fatto, oggi una delle specie di vino più discusse nasce anche di diritto.

Vin méthode nature”, vino metodo naturale: si chiamerà così, con un logico approccio di compromesso già dal nome, date le note preclusioni in ambito di legislazione unionale all’uso della locuzione “vino naturale”.

Il procedimento normativo, in tal senso, è ancora agli inizi.

Quella introdotta nei giorni scorsi, formalmente, è ancora una definizione privata, che, però, risulta già sottoposta all’esame dell’Inao, l’Istituto che si occupa delle denominazioni protette.

Ma l’elemento fondamentale della vicenda è la stesura di un compiuto disciplinare di produzione, quello la cui osservanza da parte dei produttori permetterà a costoro di utilizzare l’etichetta già validata dalla Direzione generale della concorrenza, del consumo e della repressione frodi (DGCCRF) e dal ministero dell’Agricoltura.

Un normale disciplinare, un insieme di regole che disciplinano il processo di produzione di un “vino metodo naturale”, sancendo quello che si può e quello che non si può fare: in campo e in cantina.

Sotto il primo profilo, in ordine al metodo di raccolta delle uve – a mano – e, soprattutto, di coltivazione delle viti – secondo i principi dell’agricoltura biologica, ossia quella che soggiace ai regolamenti europei e richiede la certificazione.

Quanto alla vinificazione, la fermentazione deve essere fatta solo con lieviti naturali. Inoltre, sono vietate tecniche in vinificazione definite “brutali”, come la filtrazione a membrana a flusso incrociato, la pastorizzazione flash, l’arricchimento dei mosti per osmosi inversa, la termovinificazione.

Infine, una puntuale e unitaria regolamentazione del tormentone solfiti: solforosa ammessa solo fino ad una quantità massima di 30 mg/litro solo prima dell’imbottigliamento. Con l’espressa previsione della differenziazione delle due tipologie di vino metodo naturale già in etichetta: una con la specificazione “senza solfiti aggiunti“, l’altra con “<30 mg di solfiti aggiunti>.

Tutto su iniziativa, regia e, con ogni evidenza, “pressione” del Sindacato di difesa dei vini naturali, presieduta dal vigneron Jacques Carroget, per il quale si è trattato di una necessità ormai stringente poiché “gente senza vergogna ha usato la parola naturale per mettere in vendita prodotti che nulla hanno a che fare con la nostra visione del vino”.

Il che costituisce un elemento di ulteriore interesse della vicenda; specie se confrontato a quanto accade in Italia, dove larghi – se non proprio maggioritari – settori del vino naturale, anche tra quelli più qualificati, continuano a mantenere una pervicace opposizione – spesso sulla base di motivazioni quantomeno bizzarre, a tacer d’altro – a qualsiasi idea di regolamentazione normativa di questo settore.

I vigneron francesi hanno evidentemente capito quello che ancora da queste parti si stenta a cogliere, anche da tanti produttori al di sopra di ogni sospetto per affidabilità professionale e, perché no, etica: nel mercato, nelle relazioni commerciali del terzo millennio, la fiducia tra chi produce e chi compra è elemento tanto necessario quanto, di suo, insufficiente.

Va supportata con un sistema di regole, di procedure, di controlli e, quando occorrano, di sanzioni tali da far sì che quella fiducia non debba diventare necessariamente un atto di fede.

I tanti esecrati “bollini”, ossia i sistemi di certificazione, quando sono gestiti seriamente da tutti i soggetti della filiera, servono a questo, in una società avanzata.

E’ un principio di elementare buon senso che non può tollerare zone franche: neanche nel caso del vino naturale.

Soprattutto, nel caso del vino naturale, per molti versi.

Nel periodo orribile in cui gran parte del mondo, questo Paese, ognuno di noi è stato scaraventato da un virus in pochi giorni, si ripetono, da più parti e a più livelli, dichiarazioni d’intenti e proponimenti solenni di nuova vita: quando tutto sarà passato tanto dovrà cambiare, nei valori di riferimento, nell’organizzazione sociale, nel sistema produttivo, nelle relazioni tra le persone.

Ecco, quando tutto sarà passato, una delle assolute priorità dovrà essere un nuovo paradigma nel rapporto con l’ambiente delle nostre produzioni, dei nostri consumi, dei nostri comportamenti.

Anche perché si va consolidando, in larghi settori dell’opinione pubblica e della stessa comunità scientifica, “l’ipotesi” che la penetrazione devastante di quel virus nelle nostre esistenze sia stata significativamente agevolata, se non anche concausata, dal modo in cui noi – ognuno per quanto di sua possibilità e competenza – ha trattato la terra, l’acqua, l’aria.

In tal senso, uno dei primi settori a dover essere interessato da quel cambio di paradigma non potrà non essere l’agricoltura: l’agroecologia dovrà diventare la regola, non una nicchia per pochi produttori illuminati e consumatori virtuosi, veri o sedicenti. Anche perché, in molti casi, dalla nicchia al loculo è un attimo.

Per questo, il cibo, le varie produzioni agroecologiche per essere credibili dovranno avere tutte le carte in regola, in senso figurato e letterale. E, perché no, anche i bollini.

Il vino non è solo un alimento, certo: ma è anche e prima di tutto un alimento.

Questo vale anche per il vino naturale.

In quanto indubitabile e meritoria forma di produzione agroecologica, non c’è alcuna seria ragione perché il vino naturale si sottragga ai principi e alle regole su citate.

Tutto il resto è via di mezzo tra atteggiamento un po’ naif e pregiudizio eno-ideologico.

Tutta roba che non ha mai prodotto né sicurezza alimentare né tutela ambientale.

E neanche vino buono.

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